La solita domanda: per Sana, stavolta

«Skam Italia» è un’ottima serie televisiva. Ma l’ultima stagione nemmeno sfiora l’unica soluzione dignitosa per la protagonista.


Faccio scorrere lo sguardo sul foglio elettronico: sono centinaia di serie. Non di puntate. Non di stagioni. Di serie: ogni riga, una serie televisiva. Perché io sono drogato di serie. Così drogato da doverle tenere in ordine con un foglio elettronico, appunto: quelle viste e concluse, quelle viste ma in attesa della nuova stagione, quelle non viste ma vedibili, quelle che forse, quelle che probabilmente no, quelle che ‘sticazzi. C’è di tutto: fantascienza, fantasy, distopie, ucronie, ma pure un po’ di commedia, qualche drammone, qualche thriller. Ma il teen drama no, grazie. Niente contro, ma proprio non è il mio genere. Sicché «Skam Italia» sarebbe dovuta finire fra le serie che ‘sticazzi. Invece…

…invece «Skam» mi ha preso. Un giorno, dopo averne letto una recensione intrigante e lusinghiera, mi sono detto: «Perché no?». Così ho provato a concederle un tentativo. E ne sono stato affascinato.

[Attenzione: da qui in poi, spoiler.]

Il primo, grande pregio della serie sono gli attori: «eccellenti» è un aggettivo che non rende giustizia alle loro interpretazioni. Sono tutti molto giovani – ma non così giovani da essere dei veri adolescenti –, eppure dimostrano una naturalezza e una maturità interpretativa degne di ben altra esperienza. Secondo merito: la sceneggiatura. I personaggi sono profondi, sfaccettati, realistici. La ricostruzione delle relazioni, dei conflitti, anche delle minute abitudini è verosimile. I dialoghi sono spontanei.

Purtroppo, specie nelle prime tre stagioni, la prospettiva si limita alle relazioni affettive: una coppia che scoppia nella prima, l’accettazione dell’omosessualità nella seconda, l’abuso psicologico nella terza. È palese che durante l’adolescenza le relazioni affettive sono fondamentali: ci siamo passati tutti e ci ricordiamo benissimo. Tuttavia non rappresentano tutta tutta la realtà degli adolescenti. In «Skam Italia» i genitori, gli insegnanti e in generale gli adulti di riferimento sono a malapena figure amorfe e scialbe o al massimo macchiette buffe, come lo psicologo scolastico. Quasi non ci sono conflitto o accettazione. Anche la scuola è a malapena una location come un’altra. Ma questi ragazzi e ragazze che relazione hanno con lo studio e con le materie? Hanno passioni o idiosincrasie? Hanno docenti preferiti? Dove sono le grandi domande esistenziali dell’adolescenza? Boh. Nelle prime tre stagioni non se ne trova traccia: tutto il loro universo si riduce al microcosmo dei coetanei, degli amori e delle amicizie, delle feste e dei social e di poco altro.

Fa eccezione – ed è di interesse per noi, ché è legittima la domanda «Grazie, Choam, ma che c’entra “Skam Italia” con L’Eterno Assente?» – la quarta e (per ora) ultima stagione. Protagonista è Sana Allagui, interpretata da Beatrice Bruschi. Studente all’ultimo anno di liceo, alla vigilia della Maturità, Sana è intelligente, volitiva, attraente. Italiana di seconda generazione, è musulmana convinta, credente e osservante. Dunque con il velo. Dunque con molti limiti nelle frequentazioni maschili. Dunque con l’obbligo del ramadan. Dunque con parecchie grosse difficoltà: con gli altri e con sé stessa.

Una prima e ovvia difficoltà consiste nell’integrazione e nell’accettazione da parte della società. Per quanto Sana sia e si senta italiana, è consapevole di vivere fra due mondi che faticano ad accettarsi e a interagire. Non stupisce perciò il suo fascino all’interno della serie: i più interessanti sono sempre i personaggi tormentati, sul confine fra storie, società, culture e perfino condizioni ontologiche (potremo mai dimenticare Sette di Nove e il MOE?). Le sue coetanee musulmane giudicano Sana troppo libera e spigliata, quelle non musulmane la considerano troppo limitata dalla fede islamica. Risultato: isolamento e incomprensione nel migliore dei casi, discriminazione e bullismo nei social nel peggiore. E l’enorme bisogno di accettazione raccontato nel monologo, straordinario e toccante, del messaggio vocale lasciato da Sana alle sue amiche. 4 minuti e 5 secondi di grande interpretazione (S4:E8, 3’20”):

«Io non sarò mai come voi. Forse non sarò mai abbastanza araba o musulmana. Forse non sarò mai abbastanza niente. Sarò sempre e solo un piccolo incrocio venuto male, pieno di rabbia verso gli altri.»

Sana non sopporta più nessuno: le compagne di scuola, Malik, le amiche, il fratello, i genitori, i professori, i bulli, gli amici, le amiche musulmane. L’unico verso il quale Sana non manifesta insofferenza è Allah. Ossia la vera causa di tutta la sua sofferenza: il Dio che lei potrebbe deludere. Ma del quale nemmeno le viene in mente di potersi liberare.

Sana ha un problema sociale: non riesce né a essere né a sentirsi accettata. Ma Sana ha anche un problema interiore: il conflitto fra i suoi desideri e la sua fede. Ecco la questione che ci interessa. E che «Skam Italia» affronta in modo scontato e superficiale, senza nemmeno sfiorare la soluzione più difficile, ma anche l’unica davvero dignitosa per Sana.

Finché si tratta di vivere la propria fede e i propri riti, Sana si adatta: trova sempre qualche spazio e qualche momento per pregare, se ne frega delle prese per il culo a causa del velo, affronta il ramadan senza lamentarsi. La crisi si scatena però quando Sana si innamora. E di chi si innamora? Di Malik, un amico del fratello. Ma c’è un problema: Malik si è allontanato dalla fede e non si considera più musulmano. Tragedia: una brava ragazza musulmana non può stare con un ragazzo non musulmano. Ché tanto non potrebbe mai sposarlo, poiché la religione lo proibisce. Sebbene Malik sia una persona migliore di tanti musulmani che Sana conosce.

Ora, Sana non è stupida: si rende conto benissimo che il vincolo del matrimonio possibile soltanto con un musulmano è «una cosa un po’ maschilista», per dirla con le sue stesse parole alla madre (S4:E9, 12’53”). Alla quale Sana chiede: «Perché loro possono sposare chi vogliono e noi no?». «È scritto così», le risponde la madre. «Magari un giorno i sapienti troveranno un’altra interpretazione. Vedremo». Sana commenta: «Sono tutti maschi, i sapienti». Eh già, Sana: sono tutti maschi, i sapienti. Vorrà dire qualcosa? Macché: tutta la perplessità di Sana sulla propria religione si ferma lì.

C’è poi la questione del velo. Che Sana indossa in modo libero e consapevole. Lo dice con chiarezza a Martino, il suo migliore amico (S4:E7, 18’35”): il velo non è una costrizione familiare, anzi suo padre nemmeno voleva che lei lo indossasse, perché temeva che fosse discriminata a scuola. Di più: «Se ti dicessi che… che per me portare il velo è una scelta femminista, tu che mi dici? Te lo dico io: pensi che sono pazza e che il velo è solo una cosa bigotta che mortifica le donne». Infatti, Sana: il velo non è una cosa bigotta che mortifica le donne? Se non lo è, spiegaci perché. Ma Sana non lo spiega né a Martino né a noi.

Proviamo allora a farcelo spiegare da qualcun altro: Sumaya Abdel Qader, che è stata consulente alla sceneggiatura di «Skam Italia» e che, in tutta evidenza, ha marcato profondamente il personaggio. Nata in Italia da genitori giordani, Abdel Qader ha due lauree (in Biologia e in Mediazione linguistica) e una magistrale (in Sociologia) e dal 2016 è la prima consigliera comunale musulmana a Milano. Dunque una donna senza dubbio intelligente e colta. Senza sapere altro sul suo conto, possiamo esser certi che non è una musulmana osservante e velata per costrizione o per lavaggio del cervello. Che cosa può dirci lei sull’islam e le donne?

In un’intervista a «Vanity Fair» Abdel Qader parla del velo commentando un proprio libro:

In tutto questo è finito anche il pregiudizio verso chi indossa il velo. Perché indossarlo è anche un atto di femminismo?
Nel libro ad un certo punto la protagonista esordisce con questa frase, ovvero che indossare il velo può essere un gesto femminista e ribelle. Perché se fatto in libertà è espressione dell’autodeterminazione di una donna, in coscienza e consapevolezza senza piegarsi a modelli preconfezionati.
In alcuni Paesi è simbolo di oppressione.
Comprendo questa idea. Perché in certi paesi e comunità islamiche lo è. Il velo, il niqab, il burqa e certi divieti sono contro le donne. Hanno l’obiettivo di annullarle e sottometterle. Sono ideologie figlie di società a tradizione patriarcale e misogine che interpretano la religione in questa chiave.
L’islam?
Questo non ha a che fare con il messaggio originale dell’islam che è stato ampiamente tradito nel tempo e nello spazio. L’islam oltre 1400 anni fa dava rivoluzionari diritti alle donne (se si pensa a cosa c’era qui nello stesso periodo): divorzio, contraccezione, studio, disporre dei propri beni e di sé, scegliere chi sposare o non sposare, gestire la propria vita in autonomia, essere guida religiosa, eccetera. Ci sono società che queste libertà le hanno valorizzate mentre altre no.

Questa è la solita manfrina sentita mille mila volte: «L’islam non è affatto misogino, no no no, anzi proprio il contrario, infatti nell’Arabia preislamica le donne erano poco più che animali domestici, ma poi il Profeta ha dato loro grandi libertà e grandi diritti, ed è questo il messaggio originale dell’islam». Ammettiamo pure che sia vero. Resta il fatto che oggi, in confronto alle libertà e ai diritti delle donne nell’Occidente figlio dei Lumi, il messaggio originale dell’islam è una schifezza patriarcale. Infatti sta scritto o non sta scritto nel Corano che…
…la testimonianza di una donna vale la metà di quella di un uomo? Sta scritto: Sura 2,282.
…l’eredità di una donna è la metà di quella di un uomo? Sta scritto: Sura 4,11.
…un uomo può, anzi deve picchiare la propria moglie insubordinata? Sta scritto: Sura 4,34.
Ma soprattutto sta scritto o non sta scritto nel Corano che per Allah l’uomo è superiore alla donna? Sta scritto: Sura 2,228. E ancora: Sura 4,34. Sta scritto nel libro che Allah ha dettato – dettato!… quindi è «Parola di Dio» in senso letterale – al Profeta.

Ma Sumaya Abdel Qader ha una risposta anche a questo, in un’intervista a «Oasis»:

Che rapporto hai con la fede?
C’è un sentimento di amore con la fede e un sentimento di conflitto con alcuni aspetti della religione. Io credo moltissimo in Dio, in qualcosa di altro superiore a noi. Questo non l’ho mai messo in dubbio. Le mie difficoltà spesso emergono su questioni legate ad alcune interpretazioni succedutesi nel tempo, non di rado con un taglio maschilista e poco lungimirante. Io credo che l’interpretazione religiosa debba essere flessibile in base al tempo e allo spazio e in base alla cultura che progredisce perché deve avere la capacità di adattamento al contesto. La religione serve a rispondere ai dubbi e ai problemi delle persone e a dare risposte molte più alte e profonde, rispetto al semplice “metto o non metto il velo”, o “mi sposo o non mi sposo”, e alcune risposte che un tempo potevano bastare oggi non bastano più. Quindi sono sempre alla ricerca di chi dice cose stimolanti che facciano riflettere.

Eccola lì, l’altra manfrina sentita e strasentita: l’interpretazione religiosa dev’essere flessibile e adattabile al contesto, in base al tempo e allo spazio. Ce la propinano spesso anche i cristiani, quando gli squaderniamo davanti gli orrori dell’Antico – ma pure del Nuovo, sia chiaro – testamento: «Sono libri antichi scritti in epoche antiche per società antiche. Oggi vanno reinterpretati alla luce della sensibilità e dei valori morali moderni». Uh? E perché mai? I Libri sacri non dovrebbero, per l’appunto, offrire una guida morale? Anzi, non dovrebbero essere «la» guida morale per antonomasia? In fin dei conti sono «Parola di Dio». Il Corano più di tutti, essendo stato dettato a Maometto da Allah attraverso l’arcangelo Gabriele. D’altronde non si diceva che bisogna rifarsi al messaggio originale dell’islam? Quindi c’è poco da interpretare e adattare: quello Allah dice, quello Allah vuole. Siccome la donna ribelle va menata, la donna ribelle va menata: chiaro e semplice. Quando si interpreta il Libro per renderlo compatibile con i valori della società occidentale moderna, si sta subordinando il dettato della Scrittura alla morale contemporanea, ossia il volere di Dio, che è assoluto, alla sensibilità umana, che è relativa. Tsk tsk. Non va mica bene.

Dunque sì, poche storie: l’islam è patriarcale e sessista. Lo era ai tempi del Profeta e a maggior ragione lo è oggi. Allora torniamo sempre lì, alla domanda che L’Eterno Assente ha sollevato spesso. Come può, nell’Occidente liberale, una donna intelligente, colta, matura accettare di aderire a una religione così ottusa e retrograda? Come può adeguarsi a usanze, costumi, vincoli e proibizioni che limitano la sua libertà, fino a rappresentarsele addirittura come «una scelta femminista»? L’ho chiesto in maggio per Silvia Romano. Lo avevo chiesto quasi un anno fa per la sardina velata. Ora lo chiedo per Sana. Sentiamo la risposta di Sumaya Abdel Qader in un’intervista dedicata a Beatrice Bruschi:

«Non solo: Sana a un certo punto dirà che è addirittura un gesto femminista quello di portare il velo. Perché? Perché è un gesto fatto consapevolmente, un gesto di autodeterminazione di sé, un gesto che non è stato imposto, ma voluto e scelto. Questo è il punto forse più difficile: comprendere che una donna possa decidere liberamente di indossare un capo che la copre, che copre la sua bellezza, che copre il suo essere donna. Però il fatto è che si può essere donna anche portando il velo, anche coprendo il proprio corpo, senza negare assolutamente né la propria femminilità né il proprio essere donna. Allora portare il velo diventa un esercizio spirituale, un esercizio in un percorso di fede, ed è questo quello che vive Sana, ed è quello che è per me portare… indossare il velo ed è quello che è questo percorso di fede per tante donne musulmane.»

In che senso il velo è un esercizio spirituale in un percorso di fede? Esercizio di che? Di sottomissione? Di umiliazione? Di accettazione acritica di un’imposizione sessista? Quindi anche le donne che accettano di farsi picchiare potrebbero sostenere che stanno facendo un esercizio spirituale per rispettare il versetto 34 della Sura 4? Se affermassero di essere consapevoli e autodeterminate nell’accettazione della violenza, potremmo considerare pure loro femministe? Tanto a un gesto basta essere consapevole e autodeterminato per essere femminista, giusto? Boh. Se qualcuno ci ha capito qualcosa, per cortesia me lo spieghi, ché io proprio non ci arrivo.

I problemi di Sana derivano dall’incompatibilità fra una società secolarizzata in cui lei potrebbe essere libera e una cultura patriarcale in cui lei dovrebbe sottomessa. La sua sovrapposizione di identità porta a una discriminazione intersezionale: discriminata nella società occidentale perché islamica e discriminata nella società islamica perché donna. Sana soffre per la prima discriminazione, che non dipende da lei: mica è colpa sua se viene perculata e bullizzata nei social. Della seconda discriminazione si accorge – non è stupida, Sana – ma la accetta. E in nessun momento sorge in lei il minimo dubbio che forse – forse forse – se sta male, se ama qualcuno che non potrà mai sposare, se è costretta a rinunciare a una vacanza perché ci saranno anche dei ragazzi, la causa va cercata nella sua religione ottusa e patriarcale. Una religione che è una sua scelta, non una condizione immutabile, come è l’omosessualità di Martino. È tutta lì la differenza fra l’identità non ideologica e l’identità ideologica: l’orientamento sessuale è una condizione, mentre la religione è una scelta. Perciò anche la sottomissione e la discriminazione sono una scelta. Martino non può smettere di essere gay, mentre la soluzione al dolore è alla portata di Sana: abbandonare l’islam, con tutti i suoi obblighi e le sue proibizioni. Certo, poi dovrebbe affrontare il conflitto con la famiglia e la comunità. Sarebbe una battaglia dolorosa ma non impossibile da vincere. Sarebbe soprattutto una battaglia per una vera libertà: se Sana fosse atea o anche solo deista, tutta la sua infelicità sparirebbe. Perfino la madre lo dice: «Non c’è costrizione nella religione». Ma, se non c’è costrizione, perché allora soffri così tanto, Sana?

Rinunciare alla fede islamica perché Allah è abominevole non costringerebbe Sana a rinnegare la propria cultura, le proprie tradizioni, le proprie origini, la propria sensibilità, né a omologarsi alla cultura occidentale fino a scomparire. Da più di 30 anni io ho smesso di credere nell’esistenza di Yahweh, ma questo non mi rende di un epsilon meno ebreo e insieme europeo in quanto a cultura, sensibilità, gusti, interessi e idiosincrasie. Allo stesso modo, Sana senza Allah sarebbe araba e insieme europea, con tutta la ricchezza di questo felice incontro di culture. Però più libera e più serena. Perché non potrebbe farlo? Perché questa possibilità non è stata contemplata dagli sceneggiatori, neppure come ipotesi possibile?

Ma Sana non abbandona la religione. L’ipotesi neanche la sfiora. Anzi, Sana rivendica con orgoglio la propria adesione alla fede islamica. Con il velo. Con il burqini. Con il ramadan anche in piena primavera: un mese senza mangiare né bere dall’alba al tramonto. Con la verginità fino al momento del matrimonio con un uomo che – non c’è dubbio – dovrà essere musulmano. Sana accetta in modo acritico tutto il sistema di pensiero patriarcale.

Sarà per la fede? Ma che cos’è la fede? Lo spiega Sana stessa nel dialogo con Malik (S4:E4, 17’20”):

– Ma non senti che ti manca qualcosa?
– No.
– Io non so come fai. Cioè io… io mi sentirei completamente persa.
– In che senso?
– Io durante il giorno sono sempre presa male. Sono sempre pronta a scattare, sempre tesa. Però… però nel momento in cui inizio a pregare improvvisamente tutto diventa più tranquillo, cioè come… come se avessi un mio spazio. E anche se è una giornata di merda, se ho litigato con 20 persone, in quel momento lì riesco a ricordarmi che cos’è che conta veramente, cioè essere una brava persona e rispettare gli altri. Quando prego è come se ci fosse una connessione tra… tra le cose, le dimensioni, e c’è un equilibrio che riesco a sentire. Tipo… hai presente la Luna?
– Sì, c’è… la Luna.
– Tu lo sapevi che è 400 volte più piccola del Sole? Però è molto più vicina del Sole, quindi dal nostro punto di vista, dalla Terra, sembrano grandi uguali.
– Ah, non lo sapevo.
– Sì. Ma scusa, non hai mai visto un’eclissi totale?
– Sì, una volta, sì.
– E non ti sei mai accorto che… che la Luna copre esattamente il Sole? Cioè io non posso pensare che sia tutta una coincidenza, cioè che non ci sia un equilibrio cosmico, un disegno nel quale noi siamo dentro.

Tutto qua? La pace e la tranquillità nella preghiera, la necessità di comportarsi bene con gli altri, l’equilibrio cosmico? Ma che c’entra tutto questo con Allah, il patriarcato, la sottomissione delle donne? Difatti lo domanda anche Malik:

– Però non pensi che si possa essere delle brave persone e rispettare gli altri anche senza pregare?
– Non lo so…

Noi potremmo aggiungere tante altre domande. Non pensi che si possa avvertire un senso di connessione e di equilibrio e di pace anche in un’altra tradizione religiosa? Perché, invece della preghiera islamica, non provi la meditazione zazen del buddhismo? Non pensi che lo stupore e la meraviglia per lo splendore della Natura si possano sperimentare anche senza Dio, osservandola, studiandola, ammirandola con lo sguardo incantato dello scienziato? E ancora: come puoi credere in un Dio che ti considera inferiore a un uomo? Come puoi pregare un Dio che impone obblighi e restrizioni, nel comportamento e nell’abbigliamento, solo a te e non a tuo fratello e ai tuoi amici maschi? Dunque, Sana, perché non abbandoni quella religione cretina e non fai di te stessa, del tuo corpo, delle tue abitudini, delle tue vacanze, dei tuoi pensieri e amori e desideri e sogni e speranze ciò che vuoi, senza frustrazioni né sensi di colpa?

Ma Sana non sa. Non pensa. Non prova. E crede. E prega. E non abbandona. Sana neppure si lascia sfiorare da queste domande e continua a rimanere incastrata nel suo piccolo inferno personale di contraddizioni fra i propri desideri e i vincoli imposti dalla religione.

Che sentimenti suscita in noi Sana? Compassione, povera ragazzina. Perché Sana è la dimostrazione – di fantasia, certo, ma è facile immaginare quante Sana reali esistano – dei danni psicologici provocati dalla fede. Una giovane donna intrappolata dalla credenza nel Dio abramitico, che in tutte le sue forme – non mi stancherò mai di ripeterlo – è la peggiore iattura che mai abbia colpito la cultura della specie umana e la psiche delle persone.

Choam Goldberg


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