«Divertire chi già non crede»

Ma anche provare a far riflettere chi crede o crede di credere, senza porsi il problema. Per non farli morire dopo aver vissuto da atei inconsapevoli. E se poi ci vuole una bestemmia…


«Il comico che bestemmia»: e ti sembra di aver detto tutto. Ché lui quello è: il comico che bestemmia. Lui, Daniele Fabbri, di certo non fa nulla per negare questa etichetta. Che però è riduttiva. Riduttiva dello spirito degli spettacoli di Daniele, che non si riducono alla bestemmia e anzi nei quali la bestemmia non è nemmeno l’aspetto predominante. E riduttiva dell’attività di Daniele, che è stand-up comedian dal 2007, dopo il diploma come attore e regista presso la Scuola Internazionale di Teatro di Roma, ma è pure autore, sceneggiatore per radio, teatro e fumetti. Inoltre è tra i protagonisti del Festival «Ceci n’est pas un blashpème», per la libertà di espressione e contro le leggi antiblasfemia: mostre d’arte, collettive, live performance, talk, proiezioni, stand-up comedy, sul tema della blasfemia e della censura per motivi religiosi. Daniele è il curatore della rassegna di stand-up e ha lanciato un bando di selezione per giovani comici, che scade il 31 maggio 2021. Con Stefano Antonucci, Daniele è coautore di «Gesù. La trilogia» (2015), «V for Vangelo» (2015), «Il piccolo Führer» (2017), «Il timido Anticristo» (2018), «La fattoria dell’animale» (2020). Ovviamente Daniele presidia i social: Facebook, Twitter, Instagram, YouTube.

Il tuo parroco non ti consiglierebbe i libri, i post, le foto e gli spettacoli di Daniele come contenuti edificanti. D’altro canto a Daniele sono costati anche qualche seccatura. Per esempio, nell’estate del 2018 è stato coinvolto in una shitstorm perché, durante un viaggio di lavoro in Polonia, si era fotografato mentre, con grande rispetto, rivolgeva le auguste natiche all’indirizzo della statua di Giovanni Paolo II. E ha pubblicato la foto su Twitter e su Instagram. Apriti cielo: dalla Polonia fino all’Italia, Daniele è stato sommerso di insulti, minacce e altre manifestazioni di amore cristiano. Ma di che ti stupisci? Pensaci: più di mezzo secolo dopo la prima rappresentazione, «Mistero buffo» di Dario Fo viene censurato dai membri della giunta comunale di Sinistra – di Sinistra?… ah ah – di Massa Martana, in Umbria, perché ritenuto un’opera inadeguata, visti «i temi attinenti alla religione cattolica, alla loro popolazione». Questa è (ancora) l’Italia del XXI secolo: sempre bigotta, sempre con la lingua incollata al culo dei preti, sempre timorosa di turbare, infastidire, scandalizzare.

Allora il perculamento della religione – fino all’ultimo tabù: la bestemmia – non solo ha sempre senso, ma è indispensabile. Sicché di perculamento, di bestemmie e di ateismo abbiamo parlato proprio con Daniele.

Daniele, tu sei ateo o agnostico?

Io sono ateo, antiteista e anticlericale.

Bella triade. Hai ricevuto un’educazione religiosa?

Non solo ho ricevuto un’educazione religiosa da una famiglia molto molto cattolica e molto molto praticante, ma fino a 16 o 17 anni non ho nemmeno mai nutrito alcun dubbio, perché fin da bambino mi sono sempre fidato ciecamente di tutti gli insegnamenti dei miei genitori. Quindi sono stato chierichetto e ho frequentato i boy scout e l’Azione cattolica. Tutto con estremo fervore ed estrema convinzione, senza alcuna sfumatura. Ero un esempio di parrocchiano modello: partecipavo a ogni tipo di attività e giudicavo chi non era come me. Insomma ho seguito il classico percorso che mi avrebbe portato a diventare un politico democristiano.

Come sei passato da quello fino all’ateismo, all’antiteismo e all’anticlericalismo? Il salto è enorme.

Tutto è cominciato con i dubbi da ragazzini: sul sesso, sulla vita di coppia, sul matrimonio. Così ho iniziato a porre delle domande. Fin da piccolo tutti mi dicevano che avevo un’intelligenza sopra la media, e io ci credevo e avevo un po’ la pretesa, quando parlavo con i miei educatori adulti, di poterlo fare da adulto. Peraltro i miei adulti di riferimento si rivolgevano a me sapendo che potevano darmi spiegazioni in un modo più adulto, perché io capivo. Quindi sono cresciuto sapendo di essere più grande della mia età in quanto a dialettica, e per me era inammissibile non ricevere risposte o riceverne di inadeguate per un adulto. Ed era impensabile che sui temi religiosi quegli stessi educatori non mi trattassero più da adulto. In quel momento ho cominciato a sospettare. E quando sospetto di essere preso per il culo io subodoro la malafede.

E che cosa hai fatto?

La mia indole molto curiosa mi ha spinto ad andare a studiare le tesi opposte. Così mi sono messo a leggere libri di filosofia, a seguire scrittori che parlavano di laicità, intellettuali che affrontavano temi sensibili di etica e di sessualità ma prescindendo dalla religione. In breve, mi sono accorto che spiegarsi il senso della vita e della morte e il funzionamento del mondo senza un Dio rende tutto molto più articolato e complesso ma anche più chiaro e lucido. Perciò ho concluso che la religione è tutta un pacco di cazzate. Ci ho messo davvero poco, per smettere di credere.

Quanto poco?

Un annetto. Ricordo un momento in particolare di quel periodo in cui assorbivo tutta questa nuova cultura come una spugna. Stavo servendo Messa come chierichetto. Devi capire che è una specie di privilegio. Anzi, proprio quell’esperienza mi ha fatto scoprire quanto mi piace il palcoscenico. Comunque quel giorno io ero lì e osservavo i fedeli dallo stesso punto di vista del prete. La mia parrocchia era molto grande e la chiesa poteva ospitare fino a 3’000 persone. E io mi sono chiesto: «Ma davvero tutta questa gente si muove per venire qui solo perché le vengono raccontate delle storie di fantasia in modo convincente?». Quando ho compreso che la risposta era sì, che è tutto così semplice, mi è stato chiaro come funziona. È lo stesso motivo per cui la gente va al cinema o allo stadio, lo stesso motivo per cui il nazismo ha avuto successo: se si raccontano le favole in modo convincente, si smuovono le folle. La credenza di una massa di gente non significa niente per quanto riguarda la verità di quella credenza. E dal giorno dopo ho concluso che non è vero un cazzo.

E la tua religiosissima famiglia come l’ha presa?

Ah, malissimo. (Ride.) Anche se io ho cercato di essere graduale. Ho iniziato con i livelli più facili: «Non vado più a Messa la mattina perché ho da fare, ma ci vado il pomeriggio». Poi però non ci andavo. Questa cosa sarà durata due o tre mesi. Dopodiché ho preso in mano la situazione perché non sopportavo più la pressione. E ho annunciato la mia decisione di non andare più in parrocchia, dato che non mi sentivo più di credere in quegli insegnamenti. Ovviamente l’hanno presa malissimo. Mia madre in forma un po’ più morbida: ha accettato l’idea che potesse essere un periodo di turbamento adolescenziale, che bisognava darmi il tempo di «sfogarmi» e che mi sarebbe passata. Penso che la speranza l’abbia sostenuta fino a quattro o cinque anni fa. Invece mio padre l’ha preso fin da subito come un fallimento personale. Lui non è cresciuto in un ambiente cattolico ed è diventato credente in età matura, quindi con una convinzione matura. Per questo la mia perdita della fede l’ha vissuta come una propria incapacità nel trasmettermi qualcosa che era davvero importante per lui. Siccome però io ho un fratello e quattro sorelle e lui aveva altri figli a cui pensare e siccome la sua fiducia nella Provvidenza era incrollabile, mio padre ha vissuto quel fallimento senza farne un dramma esagerato. Da quel momento i nostri rapporti si sono molto raffreddati e ora ci vogliamo bene in maniera civile. Tuttavia, da quando i miei genitori hanno scoperto che io per lavoro mi occupo di satira religiosa, hanno deciso di non voler approfondire: lo sanno, disapprovano alla lontana, ma non mi chiedono nulla e per loro importa soltanto che io stia bene.

Al di fuori della tua famiglia, ti sei mai sentito discriminato per il fatto di essere ateo?

Non nella vita personale. Per fortuna i diversi momenti della mia vita hanno finito per coincidere alla perfezione. Quando ho deciso di staccarmi dalla religione ho attraversato un brutto momento, perché tutti i miei amici facevano parte dell’ambiente parrocchiale. Quelli che sono rimasti in contatto con me sono stati pochi e, a distanza di 20 anni, sono ancora miei amici. C’è stato un periodo di transizione mentre studiavo all’Istituto tecnico informatico. Dopo aver frequentato l’asilo, le Elementari e le Medie in istituti cattolici, alle Superiori mi sono trovato in un ambiente scolastico nel quale la religione non c’era. E i miei amici e compagni non erano legati alla religione. Dopo aver lavorato come informatico per tre anni, ho deciso di mollare tutto, di cambiare vita e di dedicarmi al teatro. Ma studiare teatro significa frequentare un ambiente che è agli antipodi di quello parrocchiale. Perciò, nel momento in cui iniziavo a ricostruirmi un’etica indipendente dalla religione, sono capitato in un ambiente molto fertile da quel punto di vista. Ho conosciuto persone provenienti da famiglie di varie estrazioni, gente che aveva girato il mondo. L’integrazione è stata facile. Più difficile è stato far accettare la satira religiosa, anche perché io rivendico tantissimo il mio anticlericalismo. Nell’ambiente del teatro e della comicità mi conoscono tutti e godo di una certa stima, però è ovvio che, quando serve un comico per un programma televisivo, mi è difficile essere convocato per un provino, perché vengo identificato come «il comico che bestemmia».

Però càpita.

Sì, càpita. Ma, quando càpita, mi impongono dei paletti da rispettare in televisione.

La bestemmia, appunto.

Esatto. Ed è ragionevole, in fondo. Però poi, quando vado a registrare, emergono molto altri vincoli sui quali non posso intervenire. Vedi, il tabù sociale più rigoroso è la bestemmia, ed è un tabù ridicolo, ma se vuoi affrontarlo in modo intelligente la cosa migliore da fare non è andare in televisione e bestemmiare. Anzi, semmai è la cosa peggiore. In realtà i problemi più gravi sono altri. Per esempio, in Italia non si possono fare battute sul Papa: quelle me le hanno sempre bloccate. Non si possono fare perché si rischia il vilipendio al capo di Stato estero o il vilipendio al ministro di culto. Le sole battute sul Papa concesse sono quelle che farebbero ridere il Papa, cioè tutte quelle che escludono una critica reale. Insomma, non si può fare una vera critica attraverso la satira religiosa. Infatti mi è successo più di una volta di vedere interi pezzi di un mio monologo cancellati e mai mandati in onda.

Tu ti sei profilato non solo come ateo, ma come antiteista, quindi proprio ostile alla fede. Ne hai fatto il tuo marchio di fabbrica: Daniele Fabbri è «il comico che bestemmia». Perché?

Perché siamo nel XXI secolo ed è dimostrato a chiunque che non solo Dio non esiste, ma per secoli è stato la risposta alle domande alle quali gli esseri umani non sapevano rispondere. Però adesso a quelle domande sappiamo rispondere. Se ancora ci sono domande alle quali non sappiamo rispondere, abbiamo sviluppato un metodo che ci porterà alle risposte, dalle quali sorgeranno nuove domande alle quali di nuovo cercheremo e troveremo risposte. Tuttavia la risposta non sarà mai «Dio».

Ma se fosse come dici tu Dio sarebbe scomparso. E invece…

…invece Dio resta, ma resta soltanto in due forme. La prima forma è il sentimento religioso, il più connaturato all’essere umano. È una somma di pulsioni provenienti dal profondo, dagli archetipi dei nostri antenati, a cui si aggiunge la pressione culturale che continuiamo a metterci ancora nel XXI secolo. L’altra forma è quella iper-politica: Dio è l’argomento del Sovrano. L’invocazione di Dio e del rispetto di Dio permette agli organi del Potere di imporre le proprie leggi morali e a volte anche civili. Lo sfruttamento politico di Dio è come lo sfruttamento del razzismo: loro sanno che la gente è razzista senza un vero motivo, però sfruttano quel razzismo per acquisire consenso.

Dunque il tuo scopo è deconvertire chi crede.

In realtà il mio scopo è soprattutto divertire chi già non crede. In Italia il cattolicesimo è rappresentato ovunque e in ogni modo, mentre l’ateismo e la laicità quasi non si vedono. Il risultato è che gli atei, quando si dichiarano atei, rischiano di isolarsi dalla società, perché non trovano centri di aggregazione atea e non possono riconoscersi in niente.

E tu vuoi provare a essere uno di questi centri?

Quando ho cominciato a pubblicare su YouTube, che ovviamente era un veicolo per far conoscere il mio lavoro di comico, fra i miei intenti c’era anche quello di offrire un canale di intrattenimento per gli atei. Quando ho iniziato a fare spettacoli teatrali in cui parlavo di religione, una delle reazioni più toccanti delle persone è stata: «Che figata poter vedere un comico bestemmiare sul palco, mentre sono circondato da altre 100 persone che vivono nella mia città e ridono come me. In quella sala io mi sono sentito parte di una comunità che neanche sapevo esistesse».

È una cosa successa pure a me con il mio sfigatissimo blog e il mio insignificante canale video, che fanno numeri ridicoli in confronto agli influencer più modesti. Eppure parecchia gente mi ha scritto cose del tipo: «Io vivo in un buco di paese dove mi considerano strambo perché non vado a Messa. Perciò mi sento solo. Non ho gli argomenti per difendermi. Però adesso leggo i tuoi articoli e guardo i tuoi video e ora ho gli argomenti. Ho raggiunto la consapevolezza che non sono io a essere strambo perché sono ateo. Semmai sono loro che sono bigotti. E ci sono tante altre persone come me. Ed essere come noi non è strano, perché siamo tanti». Be’, fa sentire un po’ meno inutili nell’immensa economia del cosmo.

Per questo io mi sono sempre fatto lo scrupolo di riuscire a trovare le modalità per arrivare al pubblico più ampio possibile. L’ateismo è talmente osteggiato che, se non ci si sforza di diffonderlo, le persone non ci arrivano. Magari avrebbero potuto conoscere quegli argomenti a 25 anni, ma non hanno mai avuto la possibilità di trovarseli sotto gli occhi e del resto nemmeno lo slancio di cercarseli da sole. Così sono diventate prima adulte e poi vecchie dopo aver vissuto da atee, in solitudine, senza sapere che intorno a loro c’era una marea di gente con cui avrebbero potuto comunicare. Ti faccio un esempio: una vicina di casa dei miei genitori oggi ha 70 anni e, quando io ero ragazzino, era la mia capo-scout, quindi cattolica, ma poi alcune brutte esperienze in famiglia l’hanno allontanata dalla religione. Proprio stamattina mi ha detto: «Io lo so che tu sei ateo. Purtroppo ci stanno tante cose nella vita che neanche a me tornano. Vado a trovare una mia amica malata di SLA, ogni sera torno a casa e mi chiedo se è possibile che sia questa la vita. Ma che ci vuoi fare?». Questa donna è stata una delle prime persone a farmi ragionare, 30 anni fa. Ebbene, se fin da giovane lei avesse avuto la possibilità di vedere programmi in televisione sull’ateismo, di leggere libri sull’ateismo, di incontrare persone atee, avrebbe trascorso questi 30 anni sviluppando un pensiero molto più articolato che «La vita è strana, ma che ci vuoi fare?». Oggi avrebbe degli argomenti solidi. Invece ha vissuto una vita senza le risorse di conoscenza che l’avrebbero aiutata ad affrontare i propri dubbi. E forse morirà atea senza neanche saperlo.

Ma almeno il sentimento religioso non dovrebbe essere rispettato?

Io ho rispetto non del sentimento, quanto piuttosto delle difficoltà nell’affrontarlo e nell’elaborarlo. Riconosco quelle difficoltà, che sono state le mie fino a 17 anni. Che è un’età importante: spesso le persone a 17 anni hanno già deciso come pensarla su molti temi. E il percorso per cambiare idea diventa complicato e difficile. Molti non lo intraprendono per pigrizia. Tutti gli esseri umani sono pigri, mentalmente e fisicamente. Pigri e deboli. A me è stata necessaria una grande forza di volontà, ma l’ho fatto perché sentivo di aver vissuto un vita falsa e avvertivo l’esigenza di recuperare un altro tipo di verità. Perciò ho destrutturato tutta la mia educazione cattolica. Avevo già l’idea di scegliermi un lavoro che in qualche modo avrebbe avuto a che fare con l’arte e con la comunicazione e non sarei mai potuto essere un bravo artista se non avessi sviluppato una vera coscienza su me stesso. Però non ci si può aspettare questa capacità di analisi da una persona che nella vita sogna di sposarsi, farsi una famiglia, avere un lavoro per mantenerla e basta. È molto improbabile che una persona così affronti quest’analisi da solo. Qualcuno le deve dare degli strumenti. Dunque il rispetto del sentimento religioso di qualcuno è una stronzata: è come rispettare il sentimento razzista. Piuttosto va rispettata la debolezza e la mancanza di strumenti nell’affrontare i temi religiosi. Di conseguenza non devo trattare il credente come se fosse uno stupido, ma come se fosse incapace di arrampicarsi sull’albero. Io vorrei non che lui imparasse ad arrampicarsi, che già sarebbe tantissimo, ma che almeno lui avesse voglia di arrampicarsi. Quello è l’unico slancio che gli posso dare. Mentre la religione gli dice «Arrampicarsi sull’albero è peccato!», io mi arrampico e da lassù gli dico «È divertente! È una figata! Sali!».

Ma tu non gli dici che arrampicarsi sull’albero è una figata. Tu gli dici che restare lì a terra è da coglioni.

In certi momento lo faccio, però tu devi considerare il mio lavoro nel complesso. Non puoi giudicarlo da una battuta marginale, altrimenti non lo capisci. In realtà con il mio lavoro io voglio dirgli: «Quassù è divertente. C’è un sacco di gente che si diverte. Da qui si vedono un sacco di cose. Perché rimani lì? Coglione».

Tuttavia, anche se è marginale il tuo perculamento della religione, per esempio attraverso la bestemmia, è comunque quello che attrae di più l’attenzione. Non rischi di essere controproducente? Se prendi per il culo le sue credenze, il credente non ci si attacca di più?

La bestemmia è l’unico caso in cui io faccio esattamente questo. Ma la bestemmia è l’ultimo dei problemi. Se continuo è perché l’esperienza mi incoraggia a farlo. Sapessi quanti mi dicono: «Io sono cattolico, però bestemmio». Oppure: «Io sono cattolico, però non mi interessa se la gente bestemmia». Oppure: «Mia moglie è cattolica e le dà fastidio quando io bestemmio, però è venuta con me al tuo spettacolo e abbiamo riso tantissimo, e adesso quando a casa le ricordo le tue bestemmie ridiamo insieme». La bestemmia è proprio il tabù più stupido. La bestemmia è soltanto una parolaccia, eppure ha il potere di far irrigidire le persone. Quando bestemmio sul palco io lo faccio sempre con estrema attenzione e, quando lo faccio, applico tutte le tecniche comiche che conosco, affinché pure chi è infastidito rida o quanto meno non si irrigidisca come si irrigidisce quando sente una bestemmia per strada. Si tratta di andare a smussare quel sentimento lì. Se il credente arriva a pensare che a essere sbagliata magari non è la bestemmia ma il modo in cui si bestemmia, ha già raggiunto un’apertura mentale gigantesca. Se accetta l’idea che la bestemmia non sia un peccato imperdonabile, un’offesa a Dio, può iniziare a pensarlo su tutto il resto. L’obiettivo massimo sarebbe riuscire a convincerlo che è sbagliata tutta la religione. L’obiettivo minimo è per lo meno farlo cominciare a vivere in pace con chi la pensa diversamente da lui. Allora inizierà a pensare che se uno bestemmia non per forza è una brutta persona, che se uno è ateo non per questo è impossibile condividere qualcosa, che si può essere in disaccordo senza essere in conflitto. Sarebbe un grande primo passo.

E l’accettazione reciproca è necessaria.

In Italia gli atei sono 15 milioni: un quarto della popolazione. Non c’è bisogno di far diventare l’Italia un Paese ateo. Siamo in democrazia e anche i credenti devono avere la possibilità di esprimersi. Però l’Italia dovrebbe essere quanto meno un Paese in cui un quarto della popolazione sia rappresentata in modo proporzionale nelle istituzioni, negli spazi sociali, nei media e via dicendo. Poiché ci sono sei reti televisive nazionali, almeno una dovrebbe essere di ispirazione atea senza scatenare un conflitto. Se ci fosse la convivenza, i credenti potrebbero interessarsi di quello che fanno gli atei e viceversa, senza farsi la guerra. Questo fatto distruggerebbe tutto il potere emotivo e politico della religione e la farebbe diventare soltanto una delle tante voci. Poi, certo, io sono accanito e penso che nel XXI secolo la religione non dovrebbe più esistere, però quella è la meta finale e bisogna arrivarci per passi.

Visto che in Italia ci sono leggi per punire la blasfemia e il vilipendio della religione, hai mai avuto problemi di tipo legale?

Non ho avuto occasioni di averli perché nessuno mi ha mai denunciato. Io non cerco la denuncia a tutti i costi. Io faccio solo quello che ritengo giusto fare. Se poi ricevo una denuncia me la becco, ma non è il mio scopo. D’altronde non mi sembra il modo giusto di fare provocazione. Mi è capitato di fare registrazioni per la televisione che avevano parti sensibili ma non denunciabili, anche perché in Italia è molto facile denunciare qualcuno.

E sono sempre rotture di coglioni per chi viene denunciato.

Senza dubbio. Però finora in teatro non mi è mai successo nulla. Invece sugli altri media mi è stato impedito di avere delle occasioni.

E nei video? Pure quelli sono denunciabili.

Vero. Ma c’è questa simpatica qualità capitalistica del web, per cui, se tu non monetizzi, su YouTube i controlli e la mordacchia sono molto meno stretti. Infatti nel capitalismo non è importante non turbare il pubblico, ma è fondamentale non turbare gli inserzionisti. Se un video in cui c’è una bestemmia viene giudicato in modo positivo dal 90% di chi lo ved e in modo negativo dal 10%e e il video non è monetizzabile e non è rivolto ai bambini, la piattaforma conclude che va bene. Se invece tu quel video lo monetizzi e c’è anche solo il 4% che non lo gradisce, gli inserzionisti non si possono permettere nemmeno quel 4% di insoddisfatti. Così YouTube ti demonetizza e a lungo andare può addirittura chiuderti il canale.

Dunque tu non hai paura di essere denunciato per un video.

No, non ho paura. Non perché non possa succedere. In effetti può succedere. Però, se succede con la legislazione italiana, al massimo mi becco una multa e la cancellazione del video. E vabbe’. Tuttavia le piattaforme sono internazionali, e le leggi internazionali in materia sono molto diverse da quella italiana. In molti altri Paesi la libertà di espressione è tutelata in modo più serio e democratico. In Italia quando si parla di libertà di espressione va bene, ma il cattolicesimo non lo si deve offendere mai: quello è sacrilegio. Quindi libertà di espressione sì, però entro certi limiti. Altrove la religione ha voce in capitolo, ma non è totalitaria come in Italia, dove mancare di rispetto a Dio non va bene mai. Perciò se mi denunciassero per un video su una piattaforma si aprirebbe un caso interessante. Sarebbe un’immensa rottura di coglioni per me. Immensa. D’altra parte, quando ho deciso di fare il comico satirico, non l’ho fatto per fare il fico, ma mi sono accollato il rischio e la responsabilità. Non dico che ci spero, ma penso che sia importante.

Perché?

Perché ogni volta che si solleva un caso di denuncia per blasfemia emerge un problema che dovrebbe essere affrontato e risolto in fretta. Pensa: viviamo in un paese in cui c’è una legge per punire la bestemmia con una multa, però in Veneto la bestemmia è riconosciuta come un intercalare. Allora per bestemmiare io devo andare in Veneto? (Ride.) Bisognerebbe affrontare una volta per tutte queste leggi ridicole e cambiarle. Ma sono leggi interpretabili, quindi comode per il potente di turno, che le può sfruttare. Perciò io sono testimonial della campagna DioScotto dei pastafariani, un’estensione della campagna End Blasphemy Laws. Questo dibattito dovrebbe essere al centro dell’attenzione una volta alla settimana. Dunque sarebbe utile se succedesse a me, un personaggio pubblico e conosciuto proprio per la mia caratteristica: la blasfemia. Specie per i giovani.

Perché sarebbe utile per i giovani?

Perché per i ragazzini la bestemmia è divertente, fa ridere. Come quando a 3 anni dici «Culo!» e ridi, a 17 anni dici «Porca Madonna!» e ti fa ridere lo stesso. (Ridiamo insieme.) Visto? Come tu hai riso adesso. È assurdo che questa cosa sia considerata un atto tanto grave nella società. È solo una parolaccia: non rompete il cazzo. Pertanto, se succedesse a me di essere denunciato per un «Porca Madonna», al di là delle mie beghe legali, verrebbe sensibilizzato tutto un pubblico di 14-17enni. Così scoprirebbero come una cosa che li fa ridere sia considerata un reato in Italia. Però appena ti sposti in un altro Paese non esiste proprio. In Italia ti becchi una multa e vai per avvocati, ma quando attraversi il confine diventa un barzelletta. In un momento storico come questo, nel quale i confini politici sono insignificanti perché un ragazzino ha a portata di mano tutto il mondo, uno scandalo legato a una bestemmia e a una causa legale potrebbe far sì che un ragazzino intenzionato a fare il mio mestiere non si trovi fra 20 anni ad avere i problemi che ho io oggi.

Come giustifichi oggi il tuo ateismo? Se dovessi spiegare a qualcuno perché non credi in Dio, quale argomento gli proporresti? Uno e uno solo: il più convincente.

Partiamo dal presupposto che io mi rifiuto di discutere con gente che non conosco e che non mi vuole bene. Io non intendo spiegare perché io non credo. Bisogna rispettare il fatto che io non creda e che essere credenti o meno non debba essere un argomento nelle nostre discussioni. Se un chiunque venisse da me a chiedermi perché non credo, si sentirebbe rispondere: «Ma chi sei? Che cazzo vuoi?». È come se mi facesse delle domande sulla mia vita sessuale. Io non credo, punto. Trovo molto arrogante la pretesa di farsi spiegare perché io non credo. Io non chiedo a lui perché gli piace fare sesso alla missionaria. Sono cazzi suoi. Invece in questo dibattito c’è molta arroganza: devi sempre stare a spiegare perché sei ateo, perché non credi in Dio. Discutiamo piuttosto dei problemi reali. Parliamo per esempio del diritto all’aborto in un Paese democratico, di una legge che deve valere per lui, credente, ma anche per me, ateo.

D’accordo, però io non sto facendo un processo alle tue credenze. E poi io ti voglio bene.

Hai ragione. Se la domanda mi viene posta in un’intervista come questa, la risposta per me è molto semplice: spiegarsi il mondo senza l’esistenza di Dio è molto più facile. Non ci sono misteri assoluti. Ci sono solo problemi grossi, perché il mondo è complicato ma non è incomprensibile. La realtà è complessa ma non brancoliamo in una nebbia nella quale non sappiamo che cosa fare. Essere ateo ti permette perciò di stare più a contatto con la realtà, di essere presente. Invece essere credente significa incrociare le dita e aspettare da qualcun altro la soluzione dei problemi. Se escludi Dio dalla tua vita, allora ti interessi sul serio dei problemi. Se davvero sei preoccupato per la morte dei bambini migranti, non ti limiti a sperare nell’intervento di Dio, ma ti poni delle domande sulle morti di quei bambini, ti chiedi che cosa puoi fare tu per evitarle e in questo modo partecipi. Non dovendo delegare a nessuna entità incredibile, superiore e misteriosa la risoluzione dei problemi, io mi sento spinto dal mio ateismo a occuparmi dei problemi, ad approfondire per conoscere le ragioni, a partecipare. E mi fa sentire molto meglio, anche quando non trovo le soluzioni. Perché partecipando empatizzo con quegli esseri umani, per i quali sento di provare comunque un’affinità, una vicinanza. Entro nel loro mondo in maniera diretta, non attraverso la speranza nella Provvidenza, che è la cosa più diabolica mai inventata.

Puoi escludere la possibilità di iniziare a credere in Dio?

No, perché non posso escludere la demenza senile, visto che ce l’ho in famiglia. Però posso escludere di credere in Dio lucidamente, anche perché ci sono già passato con estrema convinzione e mi ricordo com’era. Quindi posso escludere di tornare a credere in quella roba.

Che genere di prova considereresti convincente per accettare l’esistenza di Dio?

Guarda, io ho sempre avuto due desideri nella vita: saper volare e poter materializzare oggetti a comando. Se mi si presentasse un tizio e mi dicesse «Ciao, sono Dio», come prova gli chiederei di farmi fare queste due cose: lui schiocca le dita e io devo poter volare e farmi apparire in mano il tablet che ho visto ieri da MediaWorld. Se lui schioccasse le dita e io ci riuscissi, crederei che lui è Dio. Però…

Però?

…però non crederei automaticamente nella sua capacità di far finire tutte le guerre, di far sparire tutte le malattie, di trasformare tutta la gente cattiva in buona. Crederei solo nell’esistenza di un supereroe capace di darmi i suoi superpoteri.

L’esistenza umana può avere un senso anche senza Dio? In particolare, quale senso dai tu alla tua esistenza?

Questa è una domanda trabocchetto. Anzi, sono più domande trabocchetto. Che cosa intendi per «esistenza umana»? L’esistenza dell’umanità in generale da quando esiste? Quella dei tuoi contemporanei? Quella della tua famiglia? La tua? Applicare a questa cosa già non ben definita il concetto altrettanto mal definito di «senso» non ha senso. Chiunque ti darà una risposta diversa. Un sabato sera in cui si gioca a bere a rum e pera e poi si fa la morra cinese e chi perde deve continuare a bere rum e pera e alla fine tutti vomitiamo e collassiamo sul pavimento e non ci ricordiamo più niente: ecco, per me quella cosa ha senso. È un momento meraviglioso, un gioco divertentissimo per entrare in contatto con parti di me stesso poco controllate, un esperimento sociale in cui saltano tutte le regole della convivenza, una situazione in cui le persone sperimentano emozioni forti e diverse: quelle che da ubriache diventano sentimentali, quelle che diventano paranoiche, quelle che diventano tristi. Per me quell’esperienza ha estremamente senso. Allora se tu mi poni questa domanda io ti rispondo: il concetto di «senso» vale anche per quello? Che cos’è il «senso dell’esistenza»? Una cosa che vale per tutti?

No, no: solo per te. Il senso della tua esistenza. Mi stai dicendo che è sfondarti di rum e pera?

Il senso della mia esistenza non lo so. Però so che ogni giorno cerco di fare esperienze nuove che mi facciano stare bene e mi diano una sensazione di bellezza, di benessere, di felicità. Per esempio, nella vita a me piace viaggiare per esplorare. Non le città, ma i deserti, le montagne, le campagne, i boschi. Non so perché, ma funziona. Non c’è un motivo. È così e basta. Quando in montagna cammino in silenzio, amo pensare che il mondo è pieno di montagne e non mi basterebbe tutta la vita per esplorarle tutte. In quel momento il senso della mia esistenza è realizzato: esistono così tante cose da fare che, anche se mi prefissassi di farle tutte, non ci riuscirei. Insomma, premeditare il senso dell’esistenza prima di vivere l’esistenza somiglia troppo alla ricerca del paradiso.

Che c’è di male nella ricerca del paradiso?

Supponiamo che io decida che il senso della mia esistenza consista nella scalata della montagna più alta del mondo ascoltando la mia musica preferita. Allora devo impegnarmi ogni giorno, allenarmi, studiare le tecniche di scalata e tutto il resto. Però, mentre lo faccio, magari scopro che non mi piace: la preparazione in sé non mi dà la felicità. Quello è il paradiso, ma io continuo a vivere una vita infelice preparandomi al paradiso, invece di ascoltare i miei sentimenti giorno per giorno e cercare di capire come godere della felicità tutti i giorni. Ecco, secondo me quello è il paradiso religioso: una vita infame nell’attesa di star meglio dopo morti. Non ha senso. Piuttosto ha senso cercare di vivere una vita felice tutti i giorni e poi quel che succede succede.

Dio non è necessario nemmeno per garantire un comportamento morale degli esseri umani?

Questo lo abbiamo ampiamente dimostrato nella Storia. Primo: Dio non è affatto necessario a indurre gli esseri umani ad avere un comportamento migliore. Secondo: chi crede di essere figlio di Dio o seguace di Dio non dimostra affatto di avere dei comportamenti migliori verso gli altri esseri umani. Capisco che tu mi ponga questa domanda, ma già la necessità di porla nel 2020 è un cazzo di problema. Dio è sempre stato utilizzato come una formula linguistica per spiegare un certo tipo di atteggiamento buono nei confronti del prossimo. Allora bisogna continuare a promuovere quell’atteggiamento eliminando Dio dalle frasi.

Se dovessi demolire la fede di un credente, quale argomento gli proporresti?

In realtà demolire la fede di un credente parlando di fede non è efficace. Molto meglio è mostrargli quanto la sua fede sia un ostacolo alla sua potenziale felicità. Perciò dovresti conoscerlo come persona. Ma ci sono argomenti universali, che io affronto con la comicità perché sono la leva più bassa: il divertimento, la sessualità, il rapporto con il piacere. Il vero credente ha un rapporto controverso con il piacere. Con tutti i tipi di piacere: il piacere sessuale, il piacere gastronomico, ma anche il piacere ludico e perfino il piacere spirituale. Il vero credente è molto aggrappato all’idea che il piacere sia pericoloso, che sia peccato o associabile al peccato: ecco la fonte di maggior frustrazione e alienazione. Perciò io farei leva su quello. Tutte le persone vorrebbero avere più piacere di quello permesso dalla loro cultura religiosa. Per esempio, se uno fosse credente e omosessuale e dunque vivesse male la propria omosessualità, io partirei da lì. Se anche Dio esiste, non si è mai veramente espresso contro l’omosessualità, al di là dei discorsi dei Papi, che tanto sono politici e dicono quello che gli conviene per avere un controllo sulle persone. Dunque io farei capire al credente omosessuale che la sua è soltanto paura dell’esclusione sociale, perché nella sua comunità religiosa lui vive la propria dimensione sociale. Gli farei vedere che esiste la possibilità di vivere serenamente l’omosessualità al di fuori, però prima deve superare l’ostacolo dell’emarginazione dalla propria comunità per essere accettato in una nuova comunità, composta da persone simili a lui. Se capisce quello, pian piano comincia a capire da dove veniva tutta la pressione. E a prendere in considerazione la possibilità di smettere di credere in Dio.

Pensi che la società sarebbe migliore se il numero di non credenti fosse maggiore?

Sicuramente sì. Tuttavia allo stato attuale la società sarebbe migliore anche solo se i non credenti che già ci sono fossero liberi di esprimersi senza essere osteggiati dai credenti. Prendiamo il caso dell’Italia, che è il Paese che conosco meglio. Un quarto o un quinto della popolazione è non credente. Poi ci sono altri due quinti di quelli che io chiamo «credenti della domenica». Che ci credono però non praticano, che non sono d’accordo con la Chiesa su alcune cose però a Natale gli piace andare a messa, che sanno che la Chiesa è piena di schifezze però apprezzano l’idea di Dio. Infine ci sono tanti altri «veri credenti». Se la realtà del Paese è questa, basterebbe rispecchiarla ovunque. Quindi in Parlamento ci dovrebbero essere dei politici a rappresentare gli atei, nella comunicazione televisiva, giornalistica e di intrattenimento dei contenuti a proporre le convinzioni degli atei, e locali e ristoranti dove si dà per scontato che i gestori sono atei, non c’è il crocifisso, bestemmiare è lecito perché lì tutti bestemmiano e chi non apprezza se ne va.

Io non sono interessato alle attività di Fedez e Ferragni. Nondimeno il loro coming out sull’ateismo mi è sembrato un segnale importante, considerato il loro seguito presso i giovani. Infatti dimostra che ci sono persone famose e apprezzate e profilate così. C’è quello credente e c’è quello ateo e va bene uguale.

Però queste manifestazioni vengono ancora considerate una forma di stravaganza. Invece dovrebbe essere normale per un ragazzino di 17 anni che segue Fedez sentire questa cosa e andare dai suoi genitori credenti a chiedere se è possibile e sentirsi rispondere che sì, certo, ci sono persone atee. E se lui volesse saperne di più i genitori dovrebbero avere la possibilità di orientarlo verso chi può dargli più informazioni. E magari il ragazzino a scuola potrebbe discutere del fatto che la nonna è morta e devono farle il funerale, ma lei non lo voleva in chiesa e i genitori stanno litigando e non sanno come fare, e un professore potrebbe informarlo che il Comune offre una sala per le cerimonie di commiato laiche. Se tutto fosse vissuto con estrema normalità, basterebbe questo fatto per rendere l’Italia un Paese migliore. Da lì sarebbe abbastanza naturale e inevitabile lo sgretolarsi della religione. Nel momento in cui è pacifico aderire a certe convinzioni, quelle più adeguate ai tempi e alla sensibilità e capaci di dare le risposte migliori ai problemi delle persone soppiantano quelle più retrograde e inutili. Il motivo per cui non succede è che nella nostra società le idee atee e laiche vengono osteggiate con aggressività e non riescono a diventare normali.

Come giudichi l’azione dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti?

Inefficace.

Perché?

Perché hanno molto a cuore gli aspetti accademici ma sono ancora un po’ indietro riguardo alla comunicazione adeguata ai tempi in cui viviamo. L’UAAR svolge un lavoro molto interessante per chi ha già deciso di essere ateo e gli fornisce tutta una serie di strumenti per approfondire. Però io non credo nell’approfondimento come approccio iniziale. Per me l’approfondimento rimarrà sempre e comunque riservato a pochi. Anche fra i comunisti convinti la percentuale di chi ha letto Gramsci è molto bassa. Anche fra i cattolici convinti la gente che ha davvero letto la Bibbia è poca. Anche fra gli studenti di filosofia chi la studia davvero e non solo per passare gli esami è una minoranza. Questa è l’indole umana e non la puoi eliminare. Con l’UAAR io ho provato a fare delle piccole comunicazioni, ma dal mio punto di vista sono sempre state poco soddisfacenti. Però ci ho lavorato troppo poco per poter giudicare l’azione dell’UAAR nel suo complesso. D’altronde loro devono affrontare l’ostracismo contro l’ateismo diffuso nel Paese, quindi la difficoltà di organizzare manifestazioni a ogni livello.

In che cosa si distingue dunque la tua azione da quella dell’UAAR?

Io sono molto agguerrito. Secondo me, chiunque sia ateo in questo Paese non può non essere agguerrito. Capisco che non per tutti sia così, però ritengo che un’associazione come l’UAAR, per realizzare una divulgazione efficace, debba avere un livello di combattività superiore a quello di un’associazione per la lotta contro il cancro, perché tanto in Italia la lotta contro il cancro è una specie di passe-partout. Invece per l’ateismo c’è un dovere di impegno maggiore che nell’UAAR non vedo. Magari ci stanno lavorando. Magari sui tempi lunghi arriverà. Però ora non vedo ancora il necessario coltello fra i denti.

Quindi giudichi in modo positivo l’azione degli atei militanti, che divulgano l’ateismo spesso con uno stile aggressivo e con l’intento di demolire la religione?

Ovviamente. Eppure non è sufficiente neanche quello. O per lo meno non è sufficiente da solo. Però è indispensabile che l’ateismo sia una rivendicazione e non soltanto un’espressione di opinioni. L’affermazione dell’ateismo come una realtà esistente è importante e deve passare necessariamente per una fase di lotta. Con le buone maniere non vieni ascoltato perché chi sta dall’altra parte della barricata è molto più aggressivo. Quindi sì, bisogna fare questa battaglia, anche con il rischio di arrivare a degli eccessi. Ma è un rischio da correre. Io faccio il confronto con il movimento femminista, che sta attraversando una fase controversa per alcuni aspetti, eppure ha avuto il pregio di radicare in una generazione di donne alcuni sentimenti molto forti sui quali non si transige più. Per arrivarci è stato necessario passare per una fase di lotta molto aggressiva. Ed è ancora necessario, probabilmente. Ho approfondito questo tema perché uno dei miei ultimi spettacoli riguardava il femminismo e ho dovuto leggere e studiare e incontrare delle persone e fidarmi di loro. Lo spirito della lotta io lo condivido. Infatti se non sei aggressivo non vieni ascoltato e finisci sommerso. Poi l’aggressività ti fa sparare dieci colpi, di cui due lasciano il segno e gli altri servono soltanto a far sentire i botti. D’altra parte pure il cristianesimo, se non si fosse preso l’Impero romano, non si sarebbe mai diffuso nel mondo. Se il cristianesimo non avesse condotto delle battaglie molto violente per imporre le proprie idee, adesso non sarebbe la normalità. Il percorso dev’essere quello anche per l’ateismo.

Siamo di fronte a un rinascimento religioso? Sei preoccupato? Come potrebbe essere combattuto?

Sì, ho proprio questa sensazione. Assolutamente. È una sensazione: ammetto di non avere una statistica per poter fornire le prove. Però in Italia è palese, anche se io cerco di non ragionare solo sul panorama italiano. Di recente ho letto alcune cose che mi hanno fatto constatare come la realtà mondiale sia differente. In Europa la secolarizzazione cresce, mentre nei Paesi latinoamericani il rinascimento religioso è fortissimo. Sarà uno dei motivi per cui il Papa è argentino?

E il fondamentalismo islamico non ti preoccupa?

Per ora no. Preoccuparsi per il fondamentalismo islamico è come preoccuparsi per Militia Christi. E io non sono preoccupato per Militia Christi. Neanche un po’. Lo dico in maniera molto egoistica: in Italia non c’è ragione per preoccuparsi dell’islam perché il cattolicesimo è ancora il problema più grosso. L’islam è una cultura con aspetti positivi e aspetti negativi e va affrontato come si affronta una cultura. Il fondamentalismo va combattuto come si combatte una guerra: è tutta un’altra cosa. L’islam, come tutte le culture, viene influenzato dalla cultura circostante. Quindi adesso in Italia ci sono adolescenti di famiglia musulmana che parlano romanesco e che hanno compagni di scuola cattolici con i quali si prendono in giro, perché gli uni non possono mangiare il prosciutto e gli altri non possono fare sesso. Quella cultura si modificherà nel tempo. In Italia abbiamo invece il fondamentalismo cattolico, quello sì molto più grave e molto più preoccupante, molto più minaccioso e molto più inserito nelle istituzioni. Il fondamentalismo islamico non ha alcun potere su di me, sulle mie scelte, su quello che la mia società mi permette o mi proibisce. Mentre il fondamentalismo cattolico in Italia ha ancora la capacità di cambiare le leggi: ecco perché mi preoccupa molto di più.

Ed è questo il motivo per cui non prendi per il culo l’islam ma prendi per il culo il cattolicesimo.

Che io non prendo per il culo l’islam non è vero. Solo gli dedico uno spazio minore, perché oggettivamente ha uno spazio minore. Sarebbe come prendere in giro i terrapiattisti mentre ci stanno i fascisti che ti stanno a distruggere casa. Certo, i terrapiattisti sono stupidi, però sono una realtà marginale. Non puoi dare la stessa importanza a tutto. Io le battute sull’islam le faccio. Nei fumetti, nei monologhi, nei video su internet le battute sull’islam ci sono e non mi faccio scrupoli a prenderlo in giro. Ma gli do uno spazio proporzionale alla sua importanza nella vita di tutti i giorni. Siccome sono convinto che la gran parte della gente in questo Paese e di riflesso nel mondo è infelice perché crede che la religione sia una cosa buona e quindi si fida del proprio nemico, io utilizzo la satira per ridicolizzare il nemico più grosso. Il nemico più piccolo lo ridicolizzo dandogli uno spazio minore. Tutto qua.

Choam Goldberg

(Foto: Daniele Fabbri)


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