L’orgoglio di definirmi atea

Valeria racconta la propria Storia per «Io senza Dio».


Oggi posso definirmi intollerante verso la religione, in tutte le sue manifestazioni, forse perché sono sempre stata molto razionale, perciò dovermi trovare gomito a gomito con chi crede nel soprannaturale e nel magico mi manda ormai fuori di testa.

Anche se in passato ho creduto per un periodo a Babbo Natale, alla Befana e alla fatina dei denti, fin da bambina la fede in Dio non è riuscita a mettere profonde radici in me perché qualcosa non quadrava dall’inizio. Probabilmente anche a causa di una famiglia assolutamente non praticante ma che mi ha comunque fatto prendere tutti i sacramenti come se fossero una tappa obbligata e mai nemmeno messa in discussione. O, meglio, un motivo c’era pure: lo si faceva perché così, da grande, ti potevi sposare in chiesa, sennò sai che complicazioni in più se arrivavi a quella tappa della vita senza tutti i sacramenti? Che brutto vizio fare le cose per abitudine.

Lo spirito non doveva essere quello e io già me ne rendevo conto. Questa motivazione mi ricordava tanto l’approccio che si aveva in passato per le malattie infettive esantematiche: meglio farle da piccoli perché da grandi sono una rottura e un grande rischio. Per i sacramenti il rischio di non crederci e quindi di non prenderli più? Cioè la stessa identica motivazione del «meglio prima che dopo» che mi venne mossa da alcune mamme dei compagni di classe delle mie figlie quando vennero a conoscenza della mia scelta di non far fare loro la Comunione. Era l’ennesima conferma della superficialità e della superstizione che avvertivo intorno a me su questo argomento e che mi metteva a disagio.

In famiglia solo le mie nonne erano credenti, ma in fondo è anche grazie a loro – in particolare a quella paterna – che ho continuato a coltivare questa mia visione critica anche verso Dio. È stata lei ad avermi insegnato le preghierine della sera, rassicurandomi sul fatto che Dio era buono e aveva dato a ognuno di noi un angelo custode che ci proteggeva dagli avvenimenti brutti. Però a quel punto io mi chiedevo come mai fosse stato possibile che proprio lei mi dicesse quelle cose. Lei che era rimasta vedova a 25 anni, nel bel mezzo della Seconda guerra mondiale, senza un lavoro, con due bambini di quattro e un anno da crescere e con una madre anziana a carico: l’angelo custode di mio nonno si drogava o era stato proprio Dio che lo aveva permesso? Anche la morte prematura della madre di un mio amico d’infanzia, che lasciò quattro figli di cui la più piccola di soli due anni, aumentò i miei dubbi: come poteva essere che un Dio, che ci dicevano essere tanto buono e misericordioso e capace di fare tutto, lasciasse accadere che dei bambini crescessero senza una madre e con un padre, nel caso specifico, praticamente assente? Per non parlare della mia vita da bambina, vissuta con un padre-padrone narcisista, incazzoso e accentratore che esercitava la sua violenza psicologica sui figli e sulla moglie, senza che nessun Dio buono facesse nulla per impedirlo. A quell’età non conoscevo nemmeno l’esistenza della parola «teodicea», altrimenti sarebbe stato tutto più semplice.

Però alla fine erano pensieri fugaci, passeggeri, che transitavano nella mente di una bambina che poi aveva – e cercava disperatamente – altro a cui pensare, e scorrevano via come l’acqua. Ma anche l’acqua alla fine scava nella roccia, così anche queste incongruenze mi hanno lasciato un segno che ha reso impossibile l’attecchimento di certe assurde superstizioni.

Questo percorso è stato reso possibile soprattutto perché ho sempre avuto un atteggiamento di diffidenza e di cautela rispetto a quello che mi veniva raccontato su tutto e quindi anche su Dio. Perciò non mi sono mai fatta coinvolgere dalla religione né convincere che ciò che veniva detto fosse la pura verità indiscutibile: fidarsi è bene, non fidarsi è anche meglio.

Aver seguito poi l’intero percorso scolastico in istituti privati è servito solo a rafforzare la mia diffidenza verso tutto il mondo clericale di suore e preti. Ho fatto davvero mio lo slogan sull’AIDS, però applicato alla Chiesa: «Se la conosci la eviti, se la conosci non ti uccide».

Non quadrandomi mai le cose, quando dalla catechista mi veniva detto di parlare direttamente con Dio dopo aver ricevuto la Comunione, io mi sentivo una scema a dover rimanere lì, rigorosamente in ginocchio sui banchi, a testa bassa, rivolgendomi al nulla, a chiedere perdono a un certo «Dio» per i peccati che dovevo ammettere di fronte a lui, perché lui sapeva che io avevo sicuramente commesso qualche peccato. Dio dimostrava una totale mancanza di fiducia nei miei confronti, non dubitando nemmeno per un secondo che io potessi non aver peccato, e questo mi faceva rosicare tantissimo! E poi, se vedeva davvero tutto sempre e comunque, i miei peccati non li avrebbe dovuti già conoscere? Ma poi peccati de che? Quali peccati avrei potuto mai commettere a 8-10 anni, con una situazione come la mia in casa?

Perciò, dopo la Cresima, le mie frequentazioni delle chiese si sono limitate ai matrimoni, ai battesimi e ai funerali, come la stragrande maggioranza degli italiani. Solo che a me non fregava nulla del crocifisso nei luoghi pubblici, mentre vedevo gli altri diventare improvvisamente credenti ultraortodossi pronti a tutto quando gli si paventava l’idea di staccare un pezzo di plastica dal muro, mentre per tutto il resto dell’anno se ne sbattevano allegramente dei precetti della loro religione.

Sento gente che dice di percepire Dio nel proprio cuore quando è in preghiera, quando è in chiesa. Io invece non ho mai avvertito nessuna «presenza», ma solo puzza d’incenso. Vedo solamente persone che trasmettono tanta solitudine, tristezza e rassegnazione per un destino, secondo loro, ineluttabile, un destino che non è mai davvero in mano loro ma solo in quelle del Signore, che può farne ciò che vuole a suo insindacabile giudizio. E questa acquiescenza da parte loro è inaccettabile e insopportabile per me.

Così come mi hanno sempre fatto rabbia quelli che, trovando la forza per superare un momento difficile della loro vita, hanno poi ringraziato Dio per questo. Ma quale Dio e Dio! Invece di elogiare sé stessi, di porre l’attenzione sulla propria forza d’animo, sulla propria grande capacità di far fronte alle difficoltà della vita, ringraziano qualcun altro che non solo non ha fatto nulla, ma nemmeno esiste, cazzo! È qui che focalizzo tutto il mio risentimento per la religione, che si adopera con tutte le sue forze per sminuire l’essere umano cercando di convincerlo di non essere degno, di non essere in grado, di non essere abbastanza forte e di non essere nulla senza Dio. Io questa cosa non riesco più a tollerarla.

Fino a poco tempo fa mi sembrava sempre scortese dire che non ero credente. Come se la mia fosse una colpa agli occhi degli altri. Perciò spesso rimanevo in silenzio quando si aprivano discussioni su questioni religiose. Ora non più: da quando i miei dubbi sono diventati certezze, non riesco più a tenermi nulla dentro e, dall’imbarazzo nel professarmi non credente, sono passata all’orgoglio di definirmi atea. Agli sguardi di disapprovazione che alcuni mi rivolgono in quelle occasioni mi basta controbattere con delle semplici domande sui dogmi del cristianesimo e del cattolicesimo, così da veder trasformare quell’espressione di saccenza in imbarazzo, sia per l’ignoranza dimostrata da chi si professa con tanto orgoglio credente, sia per l’evidente cazzata alla quale si rendono conto di dover credere per definirsi tali. Ecco, i credenti part time e quelli superficiali della domenica sono quelli che detesto e che contrasto di più per la loro saccenza e supponenza. Mentre per gli altri, quelli davvero «consapevoli», nutro una sorta di indifferenza mista a pena per la vita che hanno, di fatto, buttato nel cesso.

Io non so se c’è davvero qualcosa là fuori né, se c’è, che cosa sia, e non ho nemmeno la pretesa di capirlo. So solo che tra qualche milione di anni tutto ciò che oggi conosco non ci sarà più, e ciò mi porta a comprendere che la vita è solo una grande opportunità: l’unica fugace opportunità che abbiamo per sentire, per gioire, per godere di ciò che ci circonda nel rispetto degli altri. Perciò non posso sopportare di gettare questa vita alle ortiche con limitazioni, castrazioni emotive, sensi di colpa in nome di una brutta favola che viene raccontata a scopo di lucro e di dominio da parte di pochi su molti.

Valeria

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