Inclusione

Ma senza sacrificare la scorrevolezza e la leggibilità.


«Questo verbo esprime la esatta sfumatura semantica che voglio comunicare, oppure potrei usare un sinonimo più efficace? E quella virgola si giustifica oppure è meglio toglierla?». Io soffro, quando scrivo.

Il complimento più bello che mi sia mai stato rivolto da una lettrice è: «Sembra di ascoltare la tua voce». Tuttavia dietro questo stile colloquiale e scorrevole c’è un lungo e sofferto lavoro di revisione e cesellatura: ogni parola, ogni segno di interpunzione negli articoli de L’Eterno Assente è frutto di una scelta ponderata. In particolare sto attento all’inclusività.

Adesso però anche basta.

Lo sciovinismo linguistico è da coglioni. «Eh, ma noi abbiamo Dante! Vuoi mettere?», dice lo sciovinista italiano. Certo, però loro hanno Shakespeare, Goethe, Molière, Cervantes. Vuoi mettere? Apprezzare la propria lingua e amarne la letteratura va bene, ma considerarle superiori alle altre è indizio di chiusura mentale o di ignoranza. Che poi ogni lingua abbia caratteristiche, pregi e difetti peculiari è ovvio: il tedesco è soprattutto ipotattico, l’inglese soprattutto paratattico, l’italiano dipende dall’uso che se ne vuole fare. Ogni lingua è povera se usata in modo primitivo e ricca quando si fanno scelte espressive sofisticate. Nondimeno – questo è oggettivo – alcune lingue sono più comode di altre.

Per noi italofoni l’inglese è facile. Ha una pronuncia assurda ma anche una grammatica ridicola. Capire che cazzo dice un gallese o uno scozzese è quasi impossibile, tuttavia, una volta assimilati i phrasal verbs e gli irregolari, scrivere in inglese è facilissimo. Mettiti nei panni di un anglofono che studia l’italiano e deve imparare tutti i tempi e le forme verbali, comprese le eccezioni, e ricordarsi il genere di ogni sostantivo. Poi dimmi se non ti verrebbe da piangere.

Già, il genere. L’italiano è bastardo: due soli generi e per di più distribuiti a cazzo. Senza il neutro, è una lingua maschilista e, per tradizione patriarcale della cultura, non inclusiva. Fra le lingue che conosco, solo il tedesco è peggio, perché ha tre generi ma non è semplice come l’inglese, in cui tutto è neutro salvo gli esseri umani. No no: in tedesco, come in italiano, i generi sono distribuiti a cazzo.

Io ho provato a scrivere nel modo più inclusivo possibile. Addirittura ho sperato di riuscire a ottenere «l’italiano inclusivo perfetto».

Ci sono scelte semplici. In generale usare «persona» o «essere umano», ma «uomo» solo quando si intende «essere umano maschio». Evitare l’articolo prima dei cognomi femminili: che senso ha dire «Salvini e la Meloni»? Oppure giocare un po’ con i pronomi «chi» o «chiunque». E anche prestare attenzione ai ruoli e alle professioni. «La studente», perché è un participio presente: se non usiamo «la docentessa», per quale motivo dovremmo dire «la studentessa»? Oppure «la vigile», perché deriva da un aggettivo invariabile. Invece «l’avvocata», perché discende da un participio passato. Fin qui niente di complicato: si può fare, con un po’ di attenzione. Ma come la mettiamo con le forme variabili? Sostantivi con i relativi aggettivi, tutti da mettere al maschile e al femminile, magari più e più volte.

Qualche giorno fa mi sono trovato a scrivere: «I bambini e le bambine sono curiosi e curiose». Mmm… ‘spetta che riprovo: «I bambini sono curiosi e le bambine sono curiose». Poi ho pensato: «Porco Dio, che palle!». Parlo mai così, io? No. Allora per quale ragione dovrei scrivere così? Del resto non sarei nemmeno inclusivo, visto che comunque la ripetizione contempla solo maschi e femmine: come si sente chi non si riconosce in un’identità non binaria? Ok, c’è la schwa: «I/le bambinə sono curiosə». Oppure: «Lə bambinə sono curiosə»? No, aspetta, sono plurali, quindi: «L3 bambin3 sono curios3». Ma ti pare? Dico, ti pare? Ci ho provato, eh. Davvero ci ho provato. Tante volte. Non riesco. Mi fa schifo, la schwa (che dovrebbe essere femminile, come tutte le altre lettere dell’alfabeto, giusto?). Mi suona troppo artificioso. Ho tentato perfino con la u: «Tuttu i bambinu sono curiosu». Ma il plurale come si fa?

Se la lingua che scrivo deve evocare la lingua che parlo – e di fatto è così: mentre leggo, nella mia mente sento le parole come se fossero pronunciate da qualcuno – la schwa e la u sono inutilizzabili. Nessuno parla usando la schwa o la u, cazzo!

Senza contare i problemi più sottili, insolubili anche con la schwa. Suppongo di dover scrivere un articolo sui giovani e di dovermi riferire in modo generico a «un adolescente»: che faccio? Metto o non metto l’apostrofo? Se non lo metto, allora sto parlando di un ragazzino. Se lo metto, di una ragazzina. Quindi che cosa infilo fra l’articolo e il sostantivo? Di sicuro non la schwa. Che altro? Un asterisco impronunciabile?

Credimi: su ‘ste cose, scrivendo e rileggendo e correggendo, mi sono fatto montagne di seghe mentali. Ora, dopo «I bambini e le bambine sono curiosi e curiose», mi sono rotto. Manterrò la lingua il più possibile inclusiva, però solo fin dove posso e dando la priorità alla leggibilità e alla scorrevolezza. Perciò «persona» e non «uomo», ma con un maschile generico, senza ripetizioni e con il plurale sovraesteso: «I bambini sono curiosi». Anche se sono in maggioranza bambine. E ‘sticazzi.

Choam Goldberg


Avvertenza:
La lingua di questo articolo cerca di conciliare l’inclusività con la leggibilità e la scorrevolezza. Nessuno si offenda quindi se evita le ripetizioni e usa il plurale sovraesteso. Ché mi spiace, ma la schwa anche no.


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