Giacomo racconta la propria Storia per «Io senza Dio».
Mi definisco ateo da decenni nonostante «senta» la presenza di Dio. Sono incoerente? Non lo so, ma preferisco affidare al pensiero critico e non a una vaga sensazione di pienezza la definizione di che cosa stia alla base dell’universo (ammesso che una base ci sia). Questa sensazione oltretutto va e viene a seconda di ciò che mi capita, per anni al suo posto ho avvertito un’assenza. E soprattutto: chi mi dice che sentire Dio ne dimostri l’esistenza? Sentire un dolore cronico al braccio dimostrerebbe l’esistenza di un dolore «creatore»? Magari di un dolore che avrebbe mandato suo figlio a soffrire con noi per darci un segno della sua vicinanza? E se passasse il dolore che me ne farei della fede? Probabilmente è più saggio farsi vedere da un cardiologo.
Ho dato il nome di Dio a questa sensazione forse come atto involontario dato dall’educazione cattolica radicata nel mio lessico, dalla riduzione dei sentimenti al decalogo vetusto della riverenza ultraterrena. Davvero ogni stato di benessere, fiducia e pace prolungati (cose inusuali per me) deve essere riferito a potenze trascendenti verso le quali provare gratitudine o timore? E se questa pace venisse dai miei sforzi, dal fatto di essere uscito da quasi dieci anni di psicoterapia? Dall’aver imparato a esprimermi con la poesia, la musica e il canto, nonostante nessuno ai tempi ci scommettesse?
Da piccolo mi volevo suicidare. Stavo sveglio le notti fantasticando di cadere dal balcone. Poi un giorno la catechista ha parlato di una signora che si era buttata davvero ed era morta. Diceva che non era all’inferno, perché era credente e si era sicuramente pentita prima di schiantarsi. Non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine di questa vecchietta che recita rosari mentre precipita… quindi suicidarsi è peccato? Si va all’inferno? E se non si riescono a finire le preghiere nel tempo della caduta? Questi pensieri mi hanno frenato dal compiere il gesto. In un certo senso devo la vita a Gesù, anche se ora sono ateo. Che ingrato.
Sono nato in una famiglia di cattolici tiepidi. I miei genitori non si sono mai interrogati sull’esistenza di Dio e, quando nel corso degli anni ho provato a chiedere ragione del loro definirsi cristiani, mi sono sempre sentito rifilare argomenti del calibro di «qualcosa ci deve pur essere», «alla fine i comandamenti coincidono in gran parte con la legge dello Stato», «Gesù non è risorto davvero, è una metafora della rinascita». Insomma, per come l’ho sempre vista io, la loro è una fede di comodo, fondata su nient’altro che un’inconfessata paura della morte, ma anche privata e innocua. Cresimati i figli, hanno abbandonato gli ambienti religiosi. I miei non sono bigotti, probabilmente mi hanno battezzato e mandato a catechismo un po’ per tradizione, un po’ per non farsi mancare l’appoggio dei nonni e della comunità del quartiere. Può darsi che cercassero anche un modo per farmi socializzare con altri bambini, vista la mia pervicace tendenza all’isolamento. Mia madre mi insegnava le preghiere da dire la sera, ma più avanti mi sono reso conto che era soprattutto attaccamento al folklore familiare, ai ricordi dei parenti. Io però volevo fare sul serio.
Quando ero piccolo, per me Dio era un dato di fatto, al punto che mi ero creato una teoria «cattolica» sulla nascita dei bambini: lo Spirito Santo, dopo la cerimonia di nozze, li manda nella pancia della mamma, come è avvenuto per Maria. Da notare che ero a conoscenza delle modalità del concepimento di Gesù ma non dell’esistenza di figli nati fuori dal matrimonio. Da adolescente mi accorsi che credere richiedeva un impegno attivo. Una volta – per dire – riportai alla fede mio padre che stava per deconvertirsi. Vivevo la religione come qualcosa di tremendamente necessario, anche se questo cozzava col mio umore spesso cupo e con la mia «assenza di speranza» non motivata da alcun trauma personale evidente. Un brutto giorno realizzai cosa fossero quegli atti impuri citati nel sesto comandamento, mi resi conto che ne commettevo a bizzeffe e per la prima volta capii che per un cattolico conoscere è un grave rischio: commettevo un peccato di cui non riuscivo a liberarmi, ma se mi fossi limitato a ripetere a pappagallo i comandamenti come facevano tutti gli altri, senza indagarne il significato, sarei stato ancora ignorante, incolpevole e libero di tirarmelo. Piansi per settimane e da allora mi convinsi che sarei finito all’inferno. Quella stessa paura che mi aveva tenuto in vita ora me la rovinava. I confessori ovviamente, invece di tranquillizzarmi, rincaravano la dose. Nemmeno i genitori erano d’aiuto, perché non afferravano il punto: pensavano che mi preoccupassi di diventare un maniaco, non che temessi la prospettiva della punizione eterna, e la trovavano ridicola perché «tanto anche i preti si masturbano». Approfondendo ancora scoprii che a quello si aggiungevano altri peccati di cui mi macchiavo quotidianamente. In parrocchia non mettevo più piede perché ero stato pure bullizzato, andavo solo a Messa e avevo deciso di «fare parte per me stesso». Ai tempi la vecchia e mortificante comunicazione clericale stava lasciando il posto a quella metà impegnata nel sociale e metà gioia, amore ed esultanza che domina oggi. Uno come me si sentiva schiacciato dalla seconda tanto quanto dalla prima. Ricordo che mi dissi: come posso essere triste se Gesù mi chiede di essere grato, contento e attivo per il bene pubblico? Un prete mi diede da fare volontariato come penitenza, e io, spaventato com’ero dal mondo esterno, non obbedii mai. Mi resi conto di essere accidioso, depresso… e che quello era l’ennesimo peccato. Mi presi una pausa da Dio. Non meritavo il suo amore. Per fortuna, aggiungo oggi.
Avevo amici più grandi, avevo già sentito parlare di Nietzsche e di Marx e qualche germe di ateismo aveva fatto capolino come narrazione alternativa in sé coerente. Quando studiai Leopardi a scuola non andavo più a Messa e non ebbi paura di «tradire» nessuno. Contemplai «l’arido vero» un pomeriggio in camera mia, riflettendo non so più su quale dialogo delle Operette Morali. Mi accorsi con dolore di non essere più cristiano, ma c’era altro al di là della disillusione: il vuoto che percepivo, Leopardi non lo negava ottusamente come tutti avevano fatto prima, ma gli dava una legittimazione spietatamente razionale e per nulla consolatoria. Era un fatto oggettivo, naturale, non i deliri di un accidioso da redimere, di un ragazzino «esagerato» che dovrebbe uscire, era la condizione umana, espressa in pagine che toccavano le corde più pure della nostra interiorità, senza censure. Leopardi mi ascoltò e mi diede risposte. Fu doloroso perché non recuperai più la fede, ma fu anche liberatorio, come quando si opera un cancro e pian piano si guarisce. Per non parlare delle seghe: da allora me le feci – è il caso di dirlo – in santa pace.
Sono stato un cattolico praticante fino alla maggiore età, un progressista che ci teneva a specificare che non era un fissato, che a tratti si vergognava anche un po’ della sua fede, prima di trasformarmi in un pessimista ateo seguace di Leopardi. Ma non finì qui. Sono stato uno studente di lettere agnostico alla De André che scambiava Cristo per Che Guevara. Sono stato attratto dallo Zen, dal nonsense, dal panismo, dal luciferismo. Sono stato un lettore di tarocchi ispirato dall’alcol, un figuro paganeggiante, uno scettico e un fan del CICAP. Sono stato un nichilista, di quelli che cercano un compimento estetico prima di ammazzarsi… finché non mi sono accorto di aver trovato un piccolo lume dentro di me. Ma era davvero Dio che mi si mostrava e si nascondeva in questa giostra? La psicoterapia mi ha accompagnato e mi ha dato modo di raccontarmi senza nascondermi dietro a divinità e doveri, mentre la poesia e la musica hanno dato espressione al dolore. Se Gesù ha impedito che mi uccidessi da piccolo, queste pratiche, non la religione, hanno salvato la mia psiche dall’inferno in cui da allora l’aveva incatenata. Quel Dio di cui avverto ora la presenza forse, finalmente, sono io. Nessuna delusione, anzi.
Giacomo
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Ho letto con molto piacere la tua storia. Il risveglio alla vita, squarciare le tenebre dell’ignoranza bigotta è liberatorio. Anch’io ho lottato contro il dio abramitico sconfiggendolo. È incredibile come si possa rimanere imbrigliati in certe assurdità, provando paura e senso di colpa. Le religioni sono il cancro dell’umanità.
Grazie Lorenzo, meno male che la lotta è finita bene per entrambi!
Il dio abramitico é una porcheria conclamata ! Forse un’altra divinità esiste ed é amore incondizionato, ovviamente questo tipo di divinità non va bene ai big8i che vogliono un aguzzino che giudica al posto loro perché loro non hanno il fegato di farlo ergo ci sono più atei in paradiso che santi madonne cristi e mistici perché se gli atei sono carogne di carogne nell’ambito della chiesa se ne contano a bizzeffe !
Ciao Natale, io ora all’aldilà non ci credo proprio e non ho motivo di crederci, ma il concetto di Inferno, anche nei momenti di riavvicinamento a qualche forma di spiritualità, mi è sempre sembrato che compromettesse l’idea di un dio amorevole. Illuminante a riguardo è stata anche la “Genealogia della morale” di Nietzsche, anche se sfondava già una porta aperta quando l’ho studiato. In pratica sostiene quello che sostieni tu, se non ricordo male: chi non ha le palle o la forza di punire chi ritiene “cattivo” ricorre al veleno della morale per colpire i propri nemici, ed è una critica rivolta principalmente al cristianesimo (se non ricordo male anche alle religioni abramitiche in generale). Successivamente ho pensato che o Dio è giusto (e allora punisce, ma essendo anche creatore entrano in gioco tutti i paradossi logici che conosciamo bene) o è amorevole, ergo accetta tutto ciò che ha creato, ergo esiste solo il Paradiso (o solo questa vita). Anche una prospettiva di questo tipo presenta non pochi problemi (perché non ci ha creati direttamente in Paradiso? E che ce ne facciamo del male?), però almeno evita di trasferire il risentimento del credente nella fede e nelle pratiche religiose. “Non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio”, da “Preghiera in gennaio” di De Andrè, altra canzone che mi ha fatto molto riflettere al tempo e che, guarda caso, parla di suicidio 🙂
Grazie Marlon! Anche rendersi conto di non essere degli alieni è importante, che non si è soli e non si è strani. Ti ringrazio per il tuo commento, un abbraccio anche a te!
Bella Giacomo ti ho letto con molto piacere, condividiamo molte cose in comune.
Un buon proseguimento per la tua vita.. E’ proprio questo il punto, accettare che Dio non esiste ma al tempo stesso essere grati di quello che possiamo costruire in questa vita senza renderci “schiavi e/o martiri” di un culto tradizionalistico.
E’ proprio così: “Siamo Dei” direbbe un certo Lucio Dalla..
Ti abbraccio virtualmente!