Salvata dall’Inferno

Margherita Bignardi racconta la propria Storia per «Io senza Dio».


Per me la paura dell’Inferno è stata benefica: il mio percorso di liberazione è cominciato lì.

Ero piccola e già Dio Padre non mi piaceva per niente: barbuto e severo, si impicciava degli affari delle sue creature dall’alto delle nuvole solo per far danni e poi spedirle al tormento eterno. Per non parlare del triangolo con l’occhio! Non somigliavano affatto al mio bellissimo e simpaticissimo papà: giovane, moderno, spiritoso, patito del jazz – la musica del Diavolo, he he! – e per di più ateo e antifascista. Ero solo una bambina. Avrei conosciuto molto più tardi il truce apparato di leggende e leggi, ma il poco che sapevo già mi bastava: se lo conosci, lo eviti!

Invece gli dei e gli eroi greci, così fuori di testa, con le loro inverosimili avventure, i dispetti e i capricci puerili, persino le azionacce, quelli mi andavano a genio! Mi facevo leggere dalla mamma «Storie della storia del mondo» e viaggiavo rapita nella fantasia sotto le coperte, al calduccio e al sicuro, proprio come mi succedeva con le favole classiche tipo Biancaneve, alle quali l’ingrediente «paura» aggiungeva un po’ di innocui brividi.

Dall’altra parte c’erano Gesù Bambino, la Madonna, gli angioletti, i Re Magi, gentili personaggi rassicuranti schierati con Babbo Natale e la Befana, che mi attiravano con successo nel loro magico mondo. Una bizzarra koiné, questa Sacra Famiglia estesa, dove le contraddizioni coesistevano pacificamente, come nella mia famiglia, come nella maggior parte delle famiglie del tempo. Alle donne, cattoliche più o meno zelanti, le custodi della Tradizione, era delegata l’educazione dei figli, mentre gli uomini, beati loro, avevano pieno diritto al libero pensiero, purché non s’ingerissero.

Per mia fortuna il mio papà s’ingeriva eccome. A tre anni mi allenava ai sillogismi aristotelici in confezione infantile sulle sue ginocchia e io azzeccavo tutte le risposte; lui andava in brodo di giuggiole e io incameravo logica e pensiero critico per uso futuro. E le sue battute o tirate anticlericali risuonavano per la casa, violando di fatto ogni divieto.

Con questo variegato bagaglio fui mandata all’asilo dalle suore. Felice disastro! Fu lì che piantai la mia prima storica grana. Con la spietatezza dell’infanzia, protestavo che «Le suore sono brutte e cattive, e puzzano! Non ci voglio andare più all’asilo!». Tanto ho strillato e puntato i piedi che hanno dovuto ritirarmi. La mia ribellione era tutta estetica e sensoriale, ma sotto sotto il pensiero critico affilava le armi.

Sui sette anni – l’età della ragione, appunto – ho cominciato ad avere paura di Dio, il Capo Supremo. Una paura, un senso di solitudine, una vertigine tremenda: mi capitava di restare sveglia e tremante nel mio letto al buio immaginando il gelido universo infinito in cui quell’essere incorporeo – ingiusto, cattivo, sadico, indifferente o cosa? – occupava ogni luogo, non ti lasciava spazio né scampo. Diventato più astratto e teologico, ovvero illogico, quel pensiero aveva nondimeno il potere di terrorizzarmi. L’Inferno invece no: siccome ero buona, forse pensavo che non ci sarei mai finita, ma l’idea che il mio babbo di sicuro e magari le altre persone che amavo potevano venire sprofondate laggiù tra le fiamme e i forconi anche per un’inezia, un porco qui porco là dell’ultimo minuto, mi era insopportabile. Mia nonna, sedicente cattolica, mi aveva assicurato che l’Inferno non esisteva, che era roba per gonzi. (Nonna, le avrei detto anni dopo, ma ti rendi conto che è un’eresia? In altri tempi saresti finita sul rogo!) Mah.

E il Paradiso? No, grazie: tutta l’eternità a contemplare estatici Dio in compagnia di santi e beati di una noia mortale, senza amore umano, senza calore animale. Già, perché gli (altri) animali non potevano neanche avvicinarsi al cancello: San Pietro li avrebbe cacciati a pedate! Non avrei trovato neppure una bestiola amica. Non mi andava giù che il barboncino Ciuf, la micia Mignina e tutti gli altri animali – da «anima», giusto? – finissero nella discarica del Nulla come giocattoli rotti.

Il Limbo sembrava il posto migliore: se non altro è pieno di gente affascinante come i filosofi e i poeti dell’Antichità, quell’Aristotele dei sillogismi e quella Saffo dei dolci versi d’amore che declamava sempre la mamma, tanto per dire. Ma io, per via del battesimo, ne ero esclusa. In ogni caso decideva tutto Lui, e non tollerava nessun dissenso. Mi ricordava i due brutti ceffi – quello col mascellone e il petto in fuori e quello coi baffetti e il Gott-mit-uns – che avevano fatto tanto soffrire il mio papà nell’inferno dei campi di concentramento per detto e ripetuto “No, No e poi No”, e mi inquietava. Meglio non pensarci.

Barcamenandomi alla bell’e meglio, attorno ai nove-dieci anni ho completato la trafila: prima Comunione, Cresima, catechismo. Ormai ero grandicella, volevo a tutti i costi fare ordine nel guazzabuglio della mia mente, ma mi intestardivo a trovare un filo logico nella dottrina e un quantum di senso in quell’oscuro e arcaico sistema dei delitti e delle pene morali. Invano, era come cercare di drizzare le gambe ai cani!* E cominciavo a non sopportare più il carico di insensati sensi di colpa che la Chiesa metteva sulle mie fragili spalle di ragazzina approfittando dei turbamenti dell’incipiente pubertà. Perché dovevo avere per forza qualche peccato da confessare? Forse tutti quei dubbi, le sensazioni sgradevoli che questi suscitavano erano in sé colpevoli quanto le sporadiche trafitture di piacere – nuove, strane e senza nome – che mi procurava il mio corpo in trasformazione ascoltando e immaginando il conturbante Elvis Presley, detto non a caso «The Pelvis» (il Bacino)?

Intanto la mia ripugnanza per la fede cattolica, i suoi paraphernalia e i suoi concorrenti, superstizioni e magie varie compresi, cresceva. Le sublimi opere d’arte sacra del passato erano tutt’un’altra cosa, appartenendo al fiore della spiritualità umana che parlava la lingua del suo tempo, e certo mi incantavano; ma quello che vedevo smerciare intorno a me era solo il kitsch religioso più melenso e dozzinale. Anche questo era colpa dei prelati!

Avevo undici anni quando scoppiò il caso del vescovo di Prato, che aveva messo alla berlina due giovani sposati civilmente bollandoli come «pubblici concubini» e rovinandogli la vita. Il mostro! La mia famiglia fu compatta nell’indignarsi e mio padre non perse l’occasione di «catechizzarmi», questa volta con l’appoggio esterno della mamma. Io non chiedevo di meglio: quella storia era la prova provata della loro perfidia. Così una sera mi lanciai in un’articolata invettiva di fronte agli amici dei miei, uno dei quali, l’unico bigotto della compagnia, reagì dandomi scherzosamente della scimmietta ammaestrata. Nonostante tutto però ero ancora in mezzo al guado.

Finché un giorno subii una vera molestia, solo psicologica per un pelo: da dietro la grata del confessionale un viscido prete spazientito dai miei «Ho risposto male alla mamma» – altro non avevo da dire, non dicevo bugie, non rubavo la marmellata… – puntava a qualcosa di più succoso, di pruriginoso, «da sesto comandamento». Fingendo premure per la mia anima, mi istruì con voce melliflua su come praticare contorsionistici «atti impuri» solitari allo specchio. Scappai a gambe levate.

Quell’episodio traumatico, che resterà a lungo un segreto tossico, è stato il tocco fatale che ha fatto crollare il castello di carte e incastrare magicamente tutti i pezzi del puzzle: dentro di me ho potuto dire addio per sempre a quegli uomini e donne di Chiesa con la loro obbedienza cieca, la loro sottomissione all’irrazionale, il loro Dio mitomane e bipolare…

Poi finalmente, a tredici anni, ho trovato il coraggio di fare pubblica «abiura», il gran rifiuto di Dio e dei suoi rappresentanti, dei miti e dei riti della religione cattolica, di ogni religione, davanti ai parenti riuniti a tavola una domenica: il «giorno del Signore».

Margherita Bignardi

* Come il denaro per il giovane Marx: «È la fusione delle cose impossibili; esso costringe gli oggetti contraddittori a baciarsi».


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