«Dio è inutile. E pericoloso»

Il multiculturalismo minaccia il diritto individuale all’autodeterminazione. Perché il rispetto di tutti è il rispetto di ciascuno: è la tesi di Cinzia Sciuto, autrice di «Non c’è fede che tenga».


Il multiculturalismo è bello. Il multiculturalismo è il sari accanto ai vestiti degli stilisti. È il kebab accanto alla polenta, al cacciucco e agli arancini. È la moschea accanto alla chiesa e alla sinagoga. Il multiculturalismo è dunque varietà, quindi occasione di confronto e di arricchimento reciproco. Perciò il multiculturalismo è cosa buona e giusta: noi dobbiamo imparare a conoscerci, a rispettarci e perfino ad apprezzarci proprio per le nostre differenze culturali. E chi non è d’accordo è un fascista.

Questa è la Vulgata della Sinistra che si vuole aperta e inclusiva.

Poi però ti accorgi che il multiculturalismo si porta appresso fenomeni rivoltanti per chiunque sia progressista. Il patriarcato più retrivo, per esempio. La sottomissione delle donne. I matrimoni combinati e le mutilazioni genitali. Per non parlare dell’omofobia. Fino ad arrivare al terrorismo. Perché – inutile nasconderselo – il multiculturalismo, insieme al kebab e alla musica etnica, è anche questa roba qua. La dobbiamo combattere? La possiamo almeno condannare?

Se rispondi di sì, spesso la reazione è questa: «Come ti permetti? Rispetto, ci vuole. Rispetto! Cos’è questa pretesa di superiorità culturale, dopo che l’Occidente ha colonizzato e sottomesso quei popoli e represso le loro culture? Non puoi ferire la sensibilità delle persone». Insomma, magari sei un islamofobo. Di sicuro sei un identitarista, un sovranista, un suprematista. Hai presente Salvini, sì? Ecco, quello: vuoi essere come lui?

Già, ci vuole rispetto. Ma rispetto di che? Delle culture? Ma che cos’è una cultura? E perché mai dovremmo rispettare ogni cultura? Oppure rispetto delle persone? Ma una persona non ha forse una cultura? Se io critico la cultura, non manco di rispetto alla persona?

«Non c’è fede che tenga» è un saggio di Cinzia Sciuto, con un sottotitolo che non si presta a equivoci: «Manifesto laico contro il multiculturalismo». «Contro il multiculturalismo» ma anche «laico»: perciò niente Salvini, niente Fontana, niente Pillon. E dunque? Dunque una critica progressista in nome dei diritti dell’individuo. Bada: dell’individuo, non della cultura. Infatti il rispetto di tutti è il rispetto di ciascuno. Il libro di Sciuto spiega quindi che cosa sono la laicità, l’identità, la comunità, la cultura. Ma spiega pure che cosa non è una cultura. E mostra come il rispetto della cultura a prescindere, in nome del multiculturalismo, conduce a violazioni aberranti del diritto individuale all’autodeterminazione. Fino all’infibulazione, se lasci fare.

«Non c’è fede che tenga» sarebbe potuto passare inosservato. Invece ha suscitato qualche polemica, come spesso succede ai libri che propongono idee solide, ben argomentate e difficili da digerire per chi nutre dei pregiudizi. Non solo: «Non c’è fede che tenga» è anche ben scritto. Certo non è un romanzo d’evasione, ma scorre e non costringe il lettore a incartarsi nell’ipotassi contorta e nelle nebbie lessicali di tanta saggistica più simile alle supercazzole che alla filosofia. La stessa saggistica dei suoi detrattori, sia detto per inciso.

Sicché eccola qui, Cinzia Sciuto, redattrice di «MicroMega», filosofa di origine siciliana, oggi trapiantata in Germania con tutta la famiglia. Nel secondo capitolo lo dice senza mezzi termini:

«(…) da atea, posso dire di sentirmi quotidianamente offesa da molte espressioni religiose, ma mai mi sognerei di fare della mia sensibilità personale il parametro della legge.»

Dunque Cinzia è atea. Apertamente atea. Potevamo lasciarcela scappare nel nostro ciclo di interviste? Certo che no.

Cinzia, tu ti definisci atea o agnostica?

Non ho mai granché riflettuto sulla questione dell’esistenza di Dio, perché non mi sembra che ci sia molto su cui riflettere. Infatti è chi crede in qualcosa a dover fornire una prova dell’esistenza di quel qualcosa. Per questo non riesco a capire l’agnosticismo: mi pare la scelta di chi non vuole assumersi la responsabilità della propria non credenza. Magari vive in una collettività che lo stigmatizza e, siccome non ha voglia di stare a discutere con i credenti, preferisce definirsi agnostico. Ma rimane una posizione priva di contenuto. Per cui sono atea, anche se mi piacerebbe che neanche esistesse questa parola, esattamente come non esiste una parola per definire chi non crede a Babbo Natale. «Ateo» è una definizione che nasce in funzione del credente: poiché la fede la fa da padrona, chi non ce l’ha deve in qualche maniera definirsi.

Hai ricevuto un’educazione religiosa?

No, ma mi è stata trasmessa un’attenzione per la religiosità da parte dei miei genitori, da sempre interessati alla spiritualità, anche quella orientale. Sono cresciuta in una famiglia in cui la Chiesa veniva spesso messa in discussione nelle sue manifestazioni esteriori e come soggetto istituzionale, politico, sociale. Sono stata battezzata ma poi lasciata libera di frequentare o meno il catechismo e il culto. Infatti non l’ho frequentato né ho fatto la prima Comunione. Questo sebbene vivessi in un paesino dove, come in molti paesi e anche città del Sud Italia, l’istruzione religiosa era considerata inevitabile come la scuola: a 6 anni le Elementari, a 8 il catechismo. Era un passaggio fisiologico della crescita. Io invece mi sono chiesta e ho chiesto ai miei genitori quale fosse lo scopo. Loro mi hanno spiegato il senso del catechismo e dei sacramenti e, poiché io non li sentivo come necessari, non ho frequentato il catechismo e non ho fatto la prima Comunione. Ho ricevuto un’educazione molto libera.

Insomma non hai attraversato una vera e propria deconversione.

Direi di no. Ho avuto una fase nella primissima adolescenza, intorno a 10-11 anni, in cui mi è tornata la voglia di prendere i sacramenti. In parrocchia il prete mi rispose che per fare la prima Comunione avrei dovuto frequentare il catechismo con i bambini molto piccoli. Io pensai: «Ma questo è matto. Non esiste». Da quel momento sono rimasta del tutto estranea alla Chiesa e non mi sono più posta il problema. Anzi no, me lo sono posto in alcuni momenti di crisi adolescenziale, quando scrivevo nei miei diari come sarebbe bello se ci fosse un Dio. È il tipo di conforto cercato da chi attraversa dei momenti difficili.

Ti sei mai sentita discriminata per il tuo ateismo, sul piano personale o professionale?

Se intendi sotto forma di insulti e di attacchi personali, no. Però avverto una discriminazione istituzionale, direi anche politica in generale. In Italia gli atei sono i più discriminati fra i discriminati. Nella prima categoria di cittadini ci sono i cattolici, nella seconda i credenti di altre religioni e solo al terzo posto ci sono gli atei, che devono combattere per ogni considerazione e riconoscimento. Molto banalmente, perfino la presenza dei simboli religiosi nei luoghi istituzionali mi discrimina come non credente. L’ateismo non dovrebbe neppure essere una questione di cui discutere, ma lo diventa nel momento in cui, quando sono ricoverata in ospedale, arriva una suora e mi sollecita a pregare. Fatti come questi costringono a diventare quasi dei militanti dell’ateismo, del quale invece non ci dovrebbe importare nulla. Io non creerei mai un’associazione per difendere chi non crede negli unicorni, e difatti nessuno lo fa. Invece per quanto riguarda la non esistenza di Dio la situazione di privilegio di cui godono i credenti quasi ci obbliga alla militanza.

La tua ricerca e il tuo lavoro hanno determinato o rafforzato il tuo ateismo?

Senza dubbio lo studio della filosofia ha alimentato in me lo spirito critico, l’atteggiamento di costante scetticismo, la diffidenza verso le Verità rivelate. Ogni percorso filosofico porta a mettere in discussione le Verità assolute. Certo, alcuni filosofi sostengono una visione religiosa, ma una filosofia che non si ponga limiti nella ricerca e nell’elaborazione non può essere compatibile con l’ipotesi di un Dio personale, buono, onnisciente e onnipotente, che interviene nelle vite degli esseri umani. Diverso è il caso di quei soggetti filosofici a cui nei secoli sono state attribuite alcune caratteristiche della divinità, ma che con il Dio personale c’entrano poco. Spesso la parola «Dio» è usata per indicare oggetti molto diversi fra loro, il che riesce solo a confondere le idee e a permettere ai fedeli di sostenere che pure gli atei a modo loro credono in Dio. Il «Dio» di Spinoza, per esempio – cioè «Deus sive Natura», Dio ossia la Natura – nulla ha a che fare con il Dio personale delle religioni monoteiste. Sarebbe più utile, anche da parte dei filosofi, limitarsi a usare la parola «Dio» per indicare il Dio tradizionale, personale, creatore, che agisce nelle esistenze umane, che giudica e spedisce all’inferno o in paradiso. Così si eviterebbero inutili confusioni.

Hai mai manifestato esplicitamente il tuo ateismo?

Sì, certo. Lo faccio sempre quando se ne presenta l’occasione, senza remore.

Con quali reazioni?

Non ho ricordi di reazioni sconvolte: in generale la gente se lo aspetta da me. Chi mi conosce sa che cosa faccio e che cosa scrivo e immagino si stupirebbe se io fossi credente.

Come giustifichi oggi il tuo ateismo? Se dovessi spiegare a qualcuno per quale motivo non credi in Dio, quale argomento gli proporresti? Uno e uno solo: il più convincente.

Io ribalterei la domanda: dimmi tu per quale motivo sei credente, dimmi quali prove hai dell’esistenza del tuo Dio. L’onere della prova spetta sempre a chi sostiene che esiste qualcosa la cui esistenza non è però universalmente riconosciuta perché non è esperibile da tutti sul piano fenomenologico. Per questo trovo inutile e poco interessante il tentativo di dimostrare la non esistenza di Dio, come del resto di qualsiasi cosa non esista. E se invece si postula l’esistenza di qualcosa, poi ci si deve assumere l’onere di fornire le prove, se si vuole che anche gli altri ci credano. A quel punto, però, una volta fornite le prove, non siamo più nell’ambito della «credenza» ma della «conoscenza». In breve, non si può affermare che esiste qualcosa la cui esistenza non sia verificabile in principio da chiunque e poi pretendere da chi la nega le prove della non esistenza. Il ragionamento va capovolto.

Ma secondo qualcuno c’è un bisogno umano, non razionale: «Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato», ha scritto Pascal. Sicché il bisogno di Dio sarebbe una prova dell’esistenza di Dio.

Sì, questo del sentimento e del bisogno è un argomento molto utilizzato. Ma un bisogno non implica l’esistenza della risposta al bisogno. Nel caso di Dio, il bisogno deriva da alcune predisposizioni caratteristiche degli esseri umani e oggi indagate dalle scienze cognitive: per approfondire rimando al bel saggio «Nati per credere», di Giorgio Vallortigara, Telmo Pievani e Vittorio Girotto. L’essere umano, a differenza degli altri animali, è consapevole di sé, della propria esistenza e anche della propria mortalità. La coscienza della propria finitezza è alla base del bisogno di trascendere quella stessa finitezza. Questo bisogno è alla base di tutte le straordinarie elaborazioni intellettuali, letterarie, filosofiche e anche religiose dell’essere umano. Tuttavia questo bisogno non dimostra che in questa dimensione trascendente esista davvero qualcosa al di là di quelle stesse elaborazioni.

Puoi escludere la possibilità di iniziare a credere in Dio?

Non la escludo come non escludo la possibilità di ricominciare a credere a Babbo Natale. Nella vita può accadere di tutto, perfino di perdere il senno. In questi termini non posso escludere nulla nel mio futuro, ma non ho alcun elemento che mi faccia immaginare di poter iniziare a credere.

Che genere di prova considereresti convincente per accettare l’esistenza di Dio?

Non riesco a concepire alcuna prova. Come tutta la comunità scientifica, sono consapevole che esistono fenomeni ancora inspiegati, di cui non conosciamo le cause e l’origine. E questo ambito di inspiegato è destinato ad ampliarsi sempre più: infatti, quanto più si spiegano i fenomeni, tanto più si sollevano nuove domande. Per cui, se mi dovesse capitare un fatto strano, come per esempio una visione, mi chiederei anzitutto quali sono le cause fisiche di quel fenomeno, non certo quelle trascendenti.

L’esistenza umana può avere un senso anche senza Dio?

Al contrario: l’esistenza umana può avere un senso soltanto se Dio non c’è. Tutto si gioca qui, nel lasso di tempo su questa Terra. Ce lo giochiamo con noi stessi e nessun altro all’infuori di noi a cui rendere conto. Inserire Dio nel proprio orizzonte di senso fa perdere valore all’esistenza terrena. Con una serie di conseguenze etiche di non poco conto, perché solleva dalla responsabilità delle proprie azioni. In realtà, anche da credente qualcuno potrebbe decidere di escludere Dio e di vivere «etsi Deus non daretur».

E quale senso dai tu alla tua esistenza?

Il senso della mia vita consiste nell’impiegare al massimo e al meglio le capacità di cui sono dotata per dare il mio piccolo contributo al progresso umano. Dovremmo farlo tutti, ciascuno con le proprie qualità e competenze.

Dio non è necessario nemmeno per garantire un comportamento morale degli esseri umani?

Anche in questo caso ti rispondo che è il contrario: l’esistenza di Dio inficia la possibilità di avere un comportamento autenticamente morale. Per cominciare, una condotta virtuosa fondato soltanto sul desiderio di una ricompensa futura perde tutto il proprio valore etico. Un comportamento orientato al bene non ha bisogno di alcun Dio, e immaginare un’autorità da cui far discendere le proprie azioni morali è un modo per toglier loro ogni valore. Chi non crede fa del bene, se lo fa, esclusivamente per ragioni morali, non perché si aspetta una qualche ricompensa nella propria vita. Inoltre per il credente il bene è bene non in sé, ma perché è Dio che lo vuole. E qui si pone il problema: Dio vuole il bene in quanto bene o qualunque cosa Dio voglia è bene?

Nel secondo caso, se Dio vuole il genocidio, come peraltro si racconta nell’Antico testamento, allora il genocidio è bene.

Esatto. D’altro canto, se valesse il contrario, ovvero se un’azione fosse buona in sé, allora significherebbe che Dio si sottomette a un’etica superiore, e ciò rappresenterebbe una negazione di Dio. Insomma, l’etica deve prescindere da Dio e anzi alla fine non può che negarlo. A ciò si aggiunge una difficoltà: Dio parla poco per spiegare che cosa è bene e che cosa è male. Anzi, da qualche secolo non parla affatto. E poiché si fatica a capire la sua volontà, essa è determinata da chi pretende di saperla interpretare.

Se dovessi demolire la fede di un credente, quale argomento gli proporresti?

Demolire la fede di qualcuno mi interessa poco. Piuttosto voglio capire come riescono le persone a tenere insieme tutte le contraddizioni della fede. La più lampante è quella della teodicea, cioè il problema della presenza del male e della sofferenza. Specialmente quando la sofferenza tocca, in modo ingiustificato e inconcepibile, i bambini, che non hanno ancora compiuto nessuna azione che possa meritare una punizione.

Il credente ti risponde con il peccato originale. Che, fra tutte le teodicee, a me sembra la più demenziale.

Io sono convinta che, se si parlasse in maniera aperta, seria e approfondita con i fedeli, si scoprirebbe che sono quasi tutti atei. Sono pochissime le persone credenti, in totale sincerità, in tutti i dogmi e in tutti i precetti della propria religione. E in verità sono anche pochi coloro che hanno riflettuto seriamente su di essi.

Magari i preti…

I preti sono i primi a non crederci, secondo me. Perché, quanto più studi e approfondisci, tanto più fatichi a credere con una convinzione profonda e intangibile. Un conto è la fede in Dio, ossia in qualcuno a cui rivolgersi quando si sta male, e un altro conto è aderire con perfetta convinzione a tutti i dogmi, anche quelli più assurdi e incredibili. Come il peccato originale per spiegare la sofferenza di un innocente: ecco il vero problema a cui i fedeli non sanno dare risposta.

E si salvano con il Mistero della fede.

Proprio così. Se non ti limiti alle questioni superficiali, se vai in fondo alla credenza, trovi solo la fede. Che non è razionale, perciò non è comunicabile. E quando qualcuno ti risponde «Sì, ma io credo lo stesso»… be’, cosa vuoi che ti dica? Non c’è più niente da dire. Giunti a quel punto, il dialogo è impossibile.

È utile demolire la fede altrui, oppure ciascuno è libero di credere quel che vuole?

È utile mettere in discussione le religioni, perché la fede è un ostacolo al pensiero critico, razionale, scientifico e va a detrimento dell’intera società. Piuttosto che di religione, io a scuola imporrei un corso obbligatorio di logica, poiché le persone non sono più abituate a usarla neanche a livello fondamentale, non sanno neppure che cosa sia il principio di non contraddizione. Oppure confondono la correlazione temporale con la prova della causalità. Pensano «Mio figlio si è ammalato dopo la vaccinazione, quindi il vaccino ha provocato la malattia» e diventano no vax. E la fede, la religione non aiuta affatto a costruire un pensiero critico, scientifico. Anzi, la fede in generale è un ostacolo alla razionalità. Perciò forse, più che demolire la fede del singolo credente, è importante operare affinché si estendano l’uso e la conoscenza del pensiero razionale e scientifico. Il che porterebbe quasi come naturale conseguenza a un ridimensionamento della fede.

Ma la fede non è una questione personale?

In parte sì, in parte no, perché la tua superstizione crea problemi anche a me e in generale a tutta la società. Dove c’è superstizione si crea un ambiente sociale nel quale è più difficile praticare la ricerca scientifica e trovare soluzioni razionali ai problemi collettivi. E pure applicare alcuni diritti civili, come constatiamo con l’obiezione di coscienza alla legge 194.

Pensi che la società sarebbe migliore se il numero di non credenti fosse maggiore?

Non possiamo saperlo, però sarebbe bello provare. Io ritengo che ci sarebbero meno ostacoli alla ricerca scientifica e una maggiore libertà di pensiero. Comunque non ci metterei la mano sul fuoco, perché non è dalla religione soltanto che dipendono tutti i mali del mondo. Del resto, come abbiamo visto, la fede non garantisce un comportamento etico, ma non lo garantisce nemmeno la mancanza di fede. Senza la fede saremmo semplicemente le «bestiole umane, fottute non meno che sacre» di cui parlava Eduardo Galeano, che devono fare i conti solo con sé stesse e con la propria coscienza.

Come giudichi l’azione degli atei militanti, che divulgano l’ateismo spesso con uno stile aggressivo e con l’intento di demolire la religione?

Sono necessari perché, appunto, il pensiero religioso è antirazionale e antiscientifico e va contrastato. Questi intellettuali fanno un lavoro di avanguardia. Può essere giudicato inutile o inopportuno o talvolta e da taluni anche controproducente sul piano tattico o strategico, ma è indispensabile per ribadire dei princìpi irrinunciabili. Poi ciascuno, nelle circostanze in cui si trova, sceglie il proprio stile. Io non pretendo di deconvertire le persone, di trasformarle in atei. Però, così come, quando trovo qualcuno che crede nella magia o nell’astrologia, sento il dovere etico di fargli notare che sta buttando i propri soldi in cialtronate, nello stesso modo agisco con chi ha fede. Sebbene, purtroppo, la fede goda di una considerazione diversa e maggiore rispetto alle altre superstizioni.

Considerazione che la mette al riparo dalle offese.

Sì, c’è questa obiezione: non si deve ferire la sensibilità religiosa. Io però pretendo la libertà di attaccare e di criticare le idee. La sensibilità religiosa non può e non deve godere di una protezione maggiore di quella dovuta a ogni altra sensibilità. Capisco che il credente si possa sentire disturbato dalle mie critiche, ma non è un argomento per mettermi a tacere. La sensibilità dell’altro come parametro della libertà di espressione annulla ogni possibilità di critica. Infatti bisogna distinguere la critica aspra e polemica alle idee e alle credenze dalle offese dirette contro le singole persone.

In poche parole, io non mi permetto di darti del cretino, ma esigo di poter dire che le tue idee sono delle cretinate.

Esatto. D’altronde questo problema si pone soltanto per le credenze religiose. In politica non esiste affatto. Anzi, gli avversari attaccano in continuazione le reciproche posizioni. Io posso dichiarare che la Lega porta avanti politiche razziste, e pazienza se i leghisti si offendono. Del resto è giusto così: se la critica delle idee, anche radicale, anche polemica, anche aggressiva, non fosse possibile, non ci sarebbe la politica.

Siamo di fronte a un rinascimento religioso? Sei preoccupata?

Sì, siamo di fronte a un rinascimento religioso. E sì, sono preoccupata. C’è anzitutto un livello collettivo, nel quale assistiamo a un uso politico della religione. Vediamo nascere movimenti fondamentalisti cristiani in Polonia, in Brasile e in molti altri Paesi. Sono movimenti che propugnano un’ideologia di estrema Destra. E poi c’è una riscoperta della fede anche a livello personale, perché viviamo in un’epoca di angosce e di preoccupazioni per il futuro. Mancano le prospettive e le speranze. Ed è abbastanza comprensibile che, non potendo cambiare le cose in questa vita, se ne desideri un’altra, migliore. I movimenti politici fondamentalisti sfruttano il senso di insoddisfazione e di precarietà per radicarsi. Io sono preoccupata perché questi stessi movimenti sono anche reazionari per quanto riguarda i diritti umani, in particolare quelli delle donne. Perciò noi abbiamo bisogno di una militanza laica. Più dell’ateismo è fondamentale la laicità, per tenere la religione fuori dallo spazio pubblico delle decisioni politiche.

Ecco, la laicità, argomento, insieme al multiculturalismo, del tuo ultimo saggio: «Non c’è fede che tenga». Che cos’è la laicità?

La laicità è un principio secondo il quale la convivenza civile e politica non dev’essere determinata da alcuna religione o dogma né da alcun elenco di precetti religiosi. Le religioni devono rimanere fuori dallo spazio pubblico e restare esperienze e pratiche personali e private. La laicità non è la mera separazione fra Stato e Chiesa, ma il principio secondo il quale lo Stato garantisce i diritti fondamentali degli individui: libertà di coscienza, possibilità di crescere in autonomia e di sviluppare il proprio pensiero, rispetto dell’integrità del proprio corpo, libertà di orientamento sessuale. Sono tutti diritti che cozzano con i precetti di alcune religioni, e la laicità dovrebbe porsi a garanzia di questi diritti.

La laicità è in contrapposizione alla fede religiosa?

Se mi chiedi se di fatto religioni e laicità siano compatibili, ti rispondo di sì. La laicità non ha a che fare con la fede ma con il suo ruolo nella vita civile e le sue leggi. Si può credere ed essere laici. Ma sono pure convinta che il principio di laicità, se preso sul serio e portato alle sue estreme conseguenze, metta in crisi la fede o quanto meno un certo tipo di fede. Per essere davvero laico, il credente deve, in maniera un po’ paradossale, relativizzare la propria fede, metterla in secondo piano rispetto alla legge civile. Questo è un vulnus per la fede stessa, che per sua natura non può che pretendere di essere assoluta: se la metti in discussione, se accetti la violazione dei suoi precetti fondamentali, che fede è?

In effetti il fanatico è più coerente: presa come assioma l’origine divina del contenuto del Libro, il resto ne discende logicamente. Quella è la verità, anzi la Verità, quindi è inevitabile agire per imporla a tutti. C’è scritto di uccidere gli apostati, di perseguitare gli omosessuali, di lapidare le adultere? Benissimo, che sia la legge per tutti, poiché quella è la Verità.

Sì, la conclusione è questa: c’è maggiore coerenza logica nel fondamentalista che nel credente laico e moderato. Prendi il caso dell’aborto, per esempio. Molti cattolici sono a favore del diritto all’aborto, pur condannandolo sul piano morale. Ma come fanno? È una posizione oggettivamente insostenibile. O tu credi che fin dal momento del concepimento quello è un essere umano, e allora l’aborto è un omicidio e tu devi impedirlo a qualunque costo, oppure lo accetti come diritto della donna, ma così stai dimostrando che non credi davvero che quello sia un essere umano e perciò non sei coerente con la tua fede. Insomma, se tu mi consenti di abortire mi dimostri che non credi davvero nel tuo Dio e nei suoi precetti. Però sono contraddizioni individuali dei credenti. Siamo tutti umani e ciascuno ha le proprie aporie con le quali convivere e fare i conti, e a me non interessano molto quelle di chi crede. L’importante è il rispetto della laicità nella collettività. Rispetto che è minacciato dal multiculturalismo, come ho argomentato nel mio libro.

Che cos’è il multiculturalismo?

È un preciso modello politico di gestione di società plurali e disomogenee, che prevede la giustapposizione di comunità diverse per cultura e religione. Le comunità concordano una serie di regole per la convivenza generale, ma su molte questioni si autoregolano. Il modello accetta un pluralismo di sistemi politici ed etici e, se viene portato alle estreme conseguenze, tollera la violazione dei diritti fondamentali nelle comunità. Dunque il multiculturalismo è un modello per nulla laico, perché tiene insieme le diverse religioni nello spazio pubblico civile senza che il potere pubblico laico possa mettere in discussione i precetti religiosi e la loro applicazione nelle diverse comunità.

Come persona progressista, non ti senti a disagio nel criticare il multiculturalismo? In fondo, ti trovi ad avere come compagni di strada figuri come Salvini e…

No no no. Aspetta. Loro non sono contro il multiculturalismo. Loro sono contro «gli altri». Non è la stessa cosa. Il multiculturalismo può essere criticato da due prospettive del tutto differenti. La prima è quella di Salvini, appunto: la difesa reazionaria della «propria» identità e della «propria» cultura dagli attacchi esterni. Questa critica condivide con il multiculturalismo la convinzione essenzialista, secondo la quale le culture sono individuabili, definibili, monolitiche e immutabili. La seconda critica è quella laica, che disinnesca questa narrazione perché nega l’essenzialismo. In una prospettiva laica le culture sono processi sociali e politici, ma soprattutto sono contraddittorie e diversificate al proprio interno. Per esempio, io e Salvini condividiamo la cittadinanza e la lingua, ma ben poco altro: per quasi tutto il resto ci troviamo su fronti opposti. L’identità culturale che lui rivendica non è la mia. Non esiste l’identità italiana. Esistono semmai le scelte individuali. Il multiculturalismo e la sua critica reazionaria pretendono di individuare le culture in modo definitivo, ma ignorano del tutto l’individuo.

Ma criticare il multiculturalismo, anche con un approccio laico, non significa rifiutare la diversità?

Se vogliamo prendere davvero sul serio la retorica della difesa della diversità, allora io dico: bene, io sono così a favore della diversità che voglio difendere la diversità non delle culture, ma di ogni singolo individuo. Per esempio il diritto di essere gay fra i musulmani. Perciò devo tutelare il diritto di ogni essere umano a vedere rispettata la propria individualità in ogni comunità. È molto discutibile che la diversità culturale sia un valore in sé. Le culture sono portatrici di molti elementi, alcuni da apprezzare e altri da combattere sulla base della propria visione etica e politica. D’altra parte è così che vanno avanti le lotte per i diritti in tutto il mondo: mettendo in discussione quegli elementi delle rispettive culture che non garantiscono quei diritti. Forse che il delitto d’onore o il matrimonio riparatore, elementi essenziali della nostra cultura e perfino del nostro ordinamento giuridico fino a non molti anni fa, sono da rispettare? D’altra parte molti fondamentalisti di culture differenti sono perfettamente d’accordo fra loro quando si tratta di condannare la blasfemia o di ostacolare i diritti delle donne e degli omosessuali.

Eppure spesso la Sinistra difende il multiculturalismo a prescindere. Ha forse perso di vista laicità? E perché?

Per perdere qualcosa bisogna prima averlo avuto, e io non so se la laicità sia mai stata un cavallo di battaglia della Sinistra. Forse di una certa Sinistra, ma non di tutta. Di sicuro oggi la Sinistra ignora la laicità. Per due motivi. Il primo è una sudditanza psicologica, peraltro abbastanza incomprensibile, nei confronti della Chiesa cattolica, nella convinzione che una laicità rigorosa e seria sia impossibile in un Paese come l’Italia, intriso di cattolicesimo. Però non sappiamo che cosa sarebbe successo e che cosa succederebbe con una scelta differente. Fare politica contando solo i voti perduti e quelli guadagnati è poco lungimirante. Io sono convinta che la Chiesa non possieda tutto il potere immaginato dai politici e dai giornalisti.

Anche i giornalisti?

Anche i giornalisti. Perfino più che i politici. È stupefacente come in Italia qualsiasi fatto che riguardi la Chiesa goda di un’attenzione mediatica enorme.

In effetti, come giornalista, a me pare assurdo sentir presentare dal telegiornale la notizia che il Papa ha invitato a pregare per la pace nel mondo. Ma che notizia è? Sarebbe una notizia se il Papa si affacciasse e tirasse una bestemmia. Altrimenti il Papa fa il Papa. Che altro?

Già. I media italiani soffrono di un’incomprensibile sudditanza psicologica. Il secondo motivo del disinteresse della Sinistra per la laicità deriva da una specie di complesso di colpa verso le culture e le religioni delle minoranze. Così, partendo da una tutela dei diritti delle minoranze, si finisce per accettare qualunque ideologia delle minoranze. L’accoglienza dei migranti non ha nulla a che vedere con il diritto alla critica della religione e della cultura di cui alcuni di loro sono portatori. Io sono favorevole alla maggiore accoglienza possibile, in linea di principio, ma questo non può significare nessuna area franca, immune da critiche alle idee. Per me gli immigrati devono essere inclusi nella comunità politica a pieno titolo, e ciò implica anche la possibilità di criticarne le idee. Un reazionario è un reazionario, che sia italiano o immigrato, e io lo contesto sul piano politico. Nella Sinistra, l’islam sembra essere diventato intoccabile perché è la religione di una minoranza. Nondimeno, siccome l’islam, come del resto le altre religioni, è portatore di un’ideologia conservatrice, io rivendico il diritto di criticarlo esattamente come critico la Chiesa cattolica.

Criticando l’islam sulla base di valori occidentali non si corre il rischio di praticare una sorta di colonialismo culturale?

Contesto questa ricostruzione del conflitto fra valori occidentali e valori islamici. Se sul piano storico è vero che la dottrina dei diritti umani è nata in Occidente, questo non significa che ne è un prodotto inevitabile. Nella cultura dell’Occidente si trova tutto e il contrario di tutto. L’Occidente è la patria della democrazia ma anche dei totalitarismi, è la culla dello Stato di diritto ma anche dei fascismi. E allora? Che cosa prendiamo dell’Occidente? Dobbiamo fare una scelta, che è etica e politica. Non si tratta di esportare dei valori, ma di porsi un problema etico e di lottare per dei princìpi.

Ma quei princìpi non diventano a propria volta un assoluto, equivalente al dogma religioso? Il musulmano ti può dire: «Ok, tu credi nei diritti fondamentali dell’individuo. Io invece credo nella parola di Allah scritta nel Corano. E Allah mi dice che le donne devono essere sottomesse agli uomini». Insomma, che cosa rispondi al relativista culturale?

È chiaro: io devo scegliere dei princìpi morali che non posso ulteriormente fondare. Per esempio, io penso che ogni essere umano sia dotato della stessa dignità. Non posso dimostrarlo e lo assumo come principio primo, dal quale discende una serie di conseguenze. Ora, tu puoi rifiutarlo, però devi avere il coraggio di ammetterlo. È una questione di onestà intellettuale. Se neghi i diritti dei gay, per coerenza devi affermare che i gay non hanno la stessa dignità degli eterosessuali. Invece no. Invece vedo arzigogoli concettuali per tenere insieme princìpi e conclusioni incompatibili. Per esempio, vedo il Papa arrampicarsi sugli specchi quando da un lato sostiene l’identica dignità dell’uomo e della donna, ma dall’altro lato le donne prete no, non se ne parla. Allora io dico: «Abbiate il coraggio del vostro fondamentalismo!». Se invece assumi come principio primo fondante la uguale dignità di ogni essere umano, puoi solo ricavarne certe conseguenze inevitabili. E in questo senso sì, quel principio è un «assoluto».

Porre come principio fondante la uguale dignità individuale non porta a finire nell’individualismo?

Il problema è terminologico. La centralità dell’individuo ha una serie di implicazioni sociali e collettive molto forti. Garantire all’individuo i suoi diritti fondamentali significa lasciarlo libero di perseguire i propri scopi, non significa difendere il suo narcisismo e il suo giardino, indifferente a tutti gli altri. Il tuo giardino non te lo puoi coltivare da solo, ma hai bisogno di una serie di condizioni sociali e politiche per farlo. La centralità dell’individuo si inserisce in un progetto di solidarietà. Quello che io propongo è un individualismo solidale: al centro l’individuo, che significa al centro «ciascun individuo», non solo «io».

Nel caso dei precetti religiosi, c’è in particolare l’annosa questione dell’hijab, il velo islamico. Alcuni Paesi lo proibiscono, almeno in certi contesti. Ma la proibizione non è una violazione della libertà individuale?

Sulla libertà la filosofia si è interrogata da sempre. Libertà non significa soltanto la possibilità di fare qualsiasi cosa passi per la testa, ma ha bisogno di alcune condizioni preliminari. Per esempio, se io da bambina sono stata costretta a frequentare il catechismo e sono stata inserita in un percorso culturale preciso, è difficile sostenere che da adulta io sono cattolica per una scelta realmente libera: le condizioni preliminari della mia libertà non sono state rispettate.

Il problema del plagio nell’educazione è molto serio. La società persegue i genitori e gli educatori quando abusano fisicamente dei propri figli e dei propri studenti. Ma che dire dell’abuso psicologico attraverso l’educazione? Non è una violenza anche quella? Richard Dawkins ha scritto:

«Sono convinto che non è esagerato parlare di “abuso di minore” quando insegnanti e preti spingono i bambini a credere per esempio che se non si confessa un peccato mortale si brucia all’inferno per l’eternità».

Dawkins ha ragione. Nel caso dell’hijab, le condizioni della libertà di scelta devono essere davvero rispettate. Per questo un divieto del velo alle bambine è indispensabile affinché sia garantita una reale libertà se e quando decideranno di indossarlo da adulte. Molti musulmani affermano di non costringere le proprie figlie a indossare il velo, ma di fatto le immergono in una narrazione coercitiva: «Se non indossi il velo non sei una brava musulmana. Se non metti l’hijab sei una bambina cattiva. Se non ti copri il capo i tuoi capelli bruceranno all’inferno». Piuttosto, se anche tua figlia volesse indossare l’hijab, finché è minorenne tu glielo dovresti impedire, perché è una pratica molto invasiva. Solo così potrai garantire una sua reale libertà quando sarà adulta.

Dunque la proibizione si giustifica?

Il problema non può essere ridotto a «velo sì» o «velo no». È un problema culturale e politico e non possiamo pensare di risolverlo soltanto con una legge o un decreto. Ci sono contesti specifici, come i bambini o le figure istituzionali in ruoli pubblici, nei quali il divieto è ragionevole. Tuttavia non è pensabile una proibizione generalizzata. Ma non solo: il velo è anche un simbolo che in ogni caso io metto in discussione.

In che senso?

La questione della libertà non esaurisce l’intero dibattito sul velo. Se anche tutte le condizioni della libertà fossero state garantite, l’hijab si porterebbe appresso un significato di gerarchia e di segregazione. Il velo diventa il simbolo della differenza nella dignità fra uomo e donna e della subordinazione di quest’ultima al primo, e io devo poterlo mettere in discussione. Anche se la tua scelta di indossarlo è veramente libera, io contesto il modello femminile che letteralmente ti porti appresso. Proprio come contesto il modello femminile propugnato dalla Chiesa cattolica, con le sue Madonne, le sue Marie Goretti e il suo culto della verginità: è un modello che sottintende la differenza nella dignità e la sottomissione della donna.

Ultima domanda, un po’ provocatoria: il burqa, ossia il massimo della prevaricazione maschile sull’abbigliamento femminile, non è il corrispettivo di un’altra prevaricazione, più sottile ma cogente, che impone alle donne occidentali di essere attraenti e seducenti per piacere agli uomini?

Eh, no! Non puoi metterli sullo stesso piano. Non puoi neanche paragonarli. Prima di tutto, nella società occidentale i modelli estetici sono molto diversi fra loro e cambiano nel tempo. Non esiste nessuna autorità, nessun prete e nessun imam che impone qualcosa. Inoltre nessuna donna occidentale è mai stata segregata, picchiata, ostracizzata per non aver aderito a un certo modello estetico. Inoltre spesso le mode giovanili, sia delle ragazze sia dei ragazzi, vengono seguite in contrasto con le aspettative delle proprie famiglie, e la cosa fa un’enorme differenza. La «pressione» che possono esercitare la pubblicità, la televisione eccetera non è paragonabile a quella esercitata dalla comunità. Se da un lato è vero che anche la comunità dei «pari» può esercitare una certa pressione, talvolta anche violenta – pensiamo ai fenomeni di bullismo nelle scuole, magari contro i compagni che non si omologano ai modelli dominanti –, la differenza cruciale sta nel fatto che questi comportamenti sono rifiutati e condannati dall’opinione pubblica, almeno apertamente. Sono orizzonti del tutto diversi.

Choam Goldberg

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