Ipocrisia

Andrea Di racconta la propria Storia per «Io senza Dio».


Il mio rapporto con Dio, a dire il vero, non c’è mai stato. Ho sempre paragonato la storiella di Dio, Gesù e cazzi vari alla storiella di Babbo Natale. Non ho mai creduto a Babbo Natale. Anzi, nella mia numerosa ed eterogenea famiglia sono stato il primo bimbo a far stracci e brandelli con gli altri (tanti) cuginetti rimbambolati dalle favole del ciccione in red che portava i regali. Ricordo ancora con precisione il ceffone materno del 26 dicembre di quell’anno, mentre proselito tra gli sguardi inumiditi dei miei amati compagni di giochi. Forse è per quello che odio fare proselitismo. Forse anche perché lo trovo inutile. Ma non ho smesso allora e per molto tempo. Solo ultimamente.

Nato in una famiglia di ceto medio/alto, cresciuto bilingue in uno Stato laico e relativamente civilizzato, vengo sbattuto come un preservativo usato nelle profondità del Nord-est italico «perché finalmente avremo la piscina», disse mamma. Ricordo bene il primo giorno nella nuova scuola: io, moretto con evidente morfogenia non nordica, abbigliato come si confaceva a un piccolo lord e uno spiccato accento estero, durante la lezione di religione scopro che sono «ateo». Meglio: di essere ateo lo so perfettamente, ma scopro che sono diverso dalla massa di cretini vocianti che con enfasi quasi catatonica recitano le preghiere il mattino appena entrati in classe. Così, già da allora, decido che la mia salute mentale non può lasciarsi andare alla confortante idea dell’omologazione sociale e, per quanto doloroso sia, non ci crederò. Comincio a fingere.

Scuola cattolica, ergo catechismo. Eh sì, perché non è facile inculcare in una persona autodeterminata e mediamente intelligente ideologie e valori totalmente privi di senso. Bisogna essere coercitivi, e la coercizione va applicata con assiduità e impegno.

Ho la mia prima esperienza disgustosa di quanto possano essere penetranti i deliri di qualcuno che crede ciecamente alle favole quando faccio la prima confessione dentro il bugigattolo di legno puzzolente. Lui, adulto di bell’aspetto ma travestito per metà da Gandalf e per metà da drag queen, dietro una retina di ottone ossidata mi ordina di inginocchiarmi. Io fingo in silenzio che il vaffanculo che sto per vomitare sia un sì e mi abbasso ma non mi inginocchio. Ascolto quel sibilo sussurrato che – credo – è una qualche filastrocca tratta dai loro libri di favole e con calma aspetto un suo cenno. Mi rivolge la parola e mi chiede di confessare i miei peccati. Deglutisco a fatica e con il tono più mesto che mi viene in mente dico: «Sono stato bravo, non ho commesso peccati!». Penso di farlo contento e invece no, il suo tono si rabbuia e la sua voce diventa perentoria: «Confessa!». Tremo di rabbia e di paura. Non so che cazzo dirgli: io sono davvero un bravo bambino, vado bene a scuola, voglio bene ai miei genitori e a mio fratello, non dico bugie. Che cazzo posso dirgli? Allora lui si avvicina alla retina ossidata e mi suggerisce: «Hai fatto pensieri sporchi?». Lì mi irrigidisco. Cioè? Tipo prendere la Nutella e spalmarla sul muro della camera? Tipo ficcarmi in bocca i calzini puzzolenti di mio fratello? Boh. Dico di no e lui, spazientito, mi congeda con una lista di cose incomprensibili da fare e se ne va. Esco sudato e incazzato come un vibrione del colera, guardo la mia mamma e senza proferire ulteriori parole me ne vado dalla chiesetta di merda. Poi però, ovviamente, in quanto stronzetto acculturato e di media intelligenza, riesco a sfilarmi dagli impegni più disgustosi che Santa Romana Chiesa prevede per gli infanti, pur sempre mantenendo l’immagine di facciata. Gran galà della Comunione e regaloni compresi.

Però canto nel coro: mi piace. Non il coro: mi piace il biondino con gli occhi azzurri che mi sorride. È una bella estate, tutto sommato, e comprendo due cose. Anzitutto la religione è come il venditore di pentole che ogni tanto viene a casa nostra: basta dire di no e lui, pur insistendo nel dire che stiamo rinunciando a un affarone incredibile, se ne va. E due: «Lo sai che è un peccato mortale e che si va all’inferno!», mi sussurra il biondino nudo mentre mi abbraccia nel fienile di casa sua, perciò più sono religiosi, più credono nei peccati mortali, più credono in fantomatici paradisi e bollenti inferni e più velocemente si sfilano le mutande. Chissà perché.

Il liceo è facile e veloce. I fedeli mi stanno relativamente lontano e la personaggia che sproloquia di Dio-Gesù-Maria e peccatori vari fa di tutto per tenermi lontano dagli altri, ma effettivamente senza un gran successo. Quanto meno fino alla terza, quando, durante un’assemblea di istituto dove devo tenere un discorso sul diritto delle persone intelligenti a distaccarsi da dogmi obsoleti e insulsi come l’obbligo di non indossare le minigonne, lei mi strappa quasi di mano il microfono e tenta di replicare dandomi del deviato assolutamente inadatto a parlare di «certe cose». È giugno. Mi sospendono ma non possono bocciarmi. Dicono a mio padre che non sono più persona gradita in quella scuola e lui mi iscrive in un altro istituto dove frequento quarta e quinta in un solo anno, mi diplomo a pieni voti e mi iscrivo all’università. Non ho mai saputo se la mia ostracizzazione fosse dovuta alla mia replica al microfono, dove apostrofavo la suddetta schizofrenica con parole di verità come «Brutta lesbica repressa che sei sempre lì che sbavi nello spogliatoio sulle primine in mutande, cattolica del cazzo», sollevando un applauso che neanche Bono degli U2, oppure al susseguente ciclostile stampato insieme ad alcuni coraggiosi ma anonimi colleghi liceali che in svariate (2 risme!) copie pubblicava un messaggino, in realtà piuttosto innocente, nel quale la religiosissima e pia donna spiegava a una innocente fanciulla che quanto accaduto non doveva essere divulgato, altrimenti sarebbero andate all’inferno entrambe. Chissà che cosa avevano fatto. La Samanta non vuole dirmelo e ride dal finestrino del suo camion ogni volta che glielo chiedo.

Il primo anno di università è un inferno, invece. Lo so: potevo scegliere anche qualcosa di più facile di «quello». Però studiare mi piace e non voglio finire a insegnare chimica a un gruppo di nani brufolosi con un interesse spropositato per i porno on line. Quindi punto in alto. Molto in alto. Ma trovo un ostacolo e – vi giuro – non sono un piagnone, ma piango tanto, di rabbia, di impotenza, di tristezza per un mondo destinato alla rovina. Però piange anche il barone. Forse per la mia mail al rettore dove minaccio di far finire tutto in tribunale. Forse perché in aula mi alzo, lo guardo dritto negli occhi e gli esprimo tutta la mia tristezza per un piccolo uomo che travisa con coscenza fatti ritenuti da lui, assiduo praticante cristano, peccaminosi e addirittura eretici. Cambio università e regione. Cerco aria nuova. Conseguo la prima laurea a 24 anni e la seconda a 26. Il barone, protetto da un non so bene quale personaggio ma di quelli che vanno in giro vestiti da drag queen in rosso, con il cappello e il medaglione a crocifisso di oro zecchino da tre chili che neanche Eminem, finisce in pensione. Il coso vestito di rosso chiede anche di parlarmi. Ci vado. Mi dice che sono troppo giovane per capire, ma si vede che si caga addosso dalla paura: ormai sono arrivato in alto. Mi saluta così ossequioso che mi sembra di essere un ghiacciolo in mano a un vorace bambino obeso, mi porge la mano, io gli dico ciao e me ne vado.

Oggi mantengo democratiche distanze da religiosanti e affinità varie e, come ho ben spiegato al parroco di zona che si ostina a processionare non so quale coso santo delle favole davanti a casa mia facendo reggere a fine luglio e con 30 gradi un dildone gigantesco a un gruppo di bambini seminudi coperti solo da una tunica bianca, che, se loro non mi importunano, godranno della mia indifferenza. Al contrario, no.

Andrea Di


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