Commento dell’autore
Anzitutto serve una premessa per mettere in chiaro la mia visione di arte, che, tra le tante cose, mi suggerisce che ergersi sul trono della morale diventa il presupposto perfetto di chi non accetta nient’altro che la propria verità. Pertanto non si tratta di essere moralista – non sto dicendo che l’arte non lo abbia mai fatto o che non lo debba fare –, piuttosto il mio è soltanto un tentativo di descrivere la condizione umana secondo il mio personale e modesto punto di vista, al di là del bene e del male.
Eros (la natura desiderante) deve necessariamente restringersi nell’«Io» della civiltà (morale condivisa). È un gioco di equilibri ed equilibrismi, dove anche i preti «giocano» la loro parte. L’essere umano non è capace di universalizzare la propria essenza. Da sempre ha cercato di inscriversi nella «normalità» inventando, giorno dopo giorno, le più svariate teorie su come «deve essere» l’uomo: dalle religioni alla polizia, dal bar alle trincee si è cercato di ridurre l’uomo de-terminandolo, de-finendolo. Tutto ciò, al contrario di quanto si possa pensare, non avviene in modo pacifico, nemmeno nella nostra «democratica» società. Quando – nel migliore dei casi – non sfocia in rivolta, la dialettica trova la sintesi e si risolve nell’addomesticamento metodico che ogni civiltà nel suo tempo promuove. Detto con Freud: il principio di piacere cede il trono al principio di realtà. Così si genera la civiltà, la quale, ad ogni modo, tenta sempre di spostare i limiti verso il diritto al godimento (libertà d’azione-felicità). Dall’altra parte e di contro, l’ordine sociale con le sue norme repressive (sicurezza-felicità). La lotta sta tutta qui: definire i confini tra civilizzazione e addomesticamento.
Nietzsche, da parte sua, vedeva nel senso di colpa, generato dalla morale religiosa, il metodo perfetto per tenere a bada il «gregge».Sempre secondo Nietzsche, questa forma di moralità deprimeva la vita e lui, come contropartita, proponeva il suo celeberrimo «superuomo» attraverso un cammino liberatorio suddiviso in tre stadi. Il primo: quello del cammello (il gregge), ossia la sottomissione acritica. Il secondo: quello del leone, cioè la fase reazionaria che tuttavia rimane ancora legata e circoscritta nello stesso linguaggio, anche se critico. Il terzo e ultimo: quello del bambino, ovvero la negazione dei vecchi valori e del loro superamento tramite l’accettazione ingenua dell’innocenza del divenire, cioè la natura corporale.
A quel punto si trattava di trasporre quanto esposto concettualmente nella forma simbolica dell’arte. Questo è quello che ho cercato di rappresentare con la mia opera.
Bisogna leggere il dipinto come un libro. Partendo dall’alto a sinistra si evidenzia l’essere umano primigenio sconvolto tra due fronti antitetici: quello della natura generante, il corpo che reagisce alla vista della bellezza simboleggiata dalla figura femminile, e nel medesimo tempo la repressione causata dalla censura (senza legge non vi è peccato). Legge che lo obbliga istintivamente a nascondere la «vergogna». Un po’ quello che accade nella rappresentazione della cacciata dall’Eden (si noti la grande mela che racchiude la scena). In basso il cammino della civiltà (occidentale) attraverso le tre già citate fasi nietzscheane, che si chiude con l’apoteosi estatica del bimbo che cancella tutte le nostre rappresentazioni. O quanto meno che tenta di farlo per non riaprire il circolo vizioso.
Questa è la mia interpretazione artistica: per superare la fase del gregge bisogna prima reagire/ruggire, per poi superare il tutto nella «follia» dell’indifferenziato, l’innocenza del divenire che, tolto il finalismo consolatorio, si realizza in piena armonia nella Magna Mater. La figura del bambino permane ancora in forma asintotica, attuabile solo nella follia. Noi esseri «normali» ce la giochiamo tra il gregge e il leone, tra chi accetta serenamente la condizione limitata del sacrificio e del lavoro alienato e chi invece, respingendola, vive la nevrosi, che può superare attraverso l’arte.
Ho parlato attraverso Nietzsche, ma qui non si tratta di promuovere un’etica rispetto a un’altra. Si pensi per esempio alla morale kantiana. La mia non è una rivendicazione qualitativa ma soltanto di modo. Ognuno aderisce a quella che è la propria natura. Sicuramente un’etica kantiana produrrebbe un altro tipo di arte (dell’armonia, della simmetria) più acquietante, che non mi appartiene per indole artistica ma che tuttavia non mi impedisce di apprezzarla ugualmente come fruitore.
Salvatore Ladduca
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Sono perplesso di fronte a quest’opera, un’opera che intende condensare una storia, un mito e una fede.
Quando osservo un quadro che intende raccontare una storia e/o dare un giudizio morale, ho sempre l’impressione di essere fuori del tempo. E non intendo fuori del tempo filosofico né di quello fantascientifico di Einstein, ma banalmente fuori del tempo storico.
L’illustrazione grafica è stata una delle prime forme di comunicazione dell’homo sapiens, forse i graffiti preistorici hanno preceduto addirittura la parola verbale. Poi le figure incise, scolpite e dipinte hanno raccontato i fatti in modo che tutti, anche gli ignoranti senza scolarizzazione, potessero essere informati. La chiesa cattolica ha capito subito che le immagini dipinte nelle chiese avevano un effetto più immediato delle prediche e dei libri, ed è per questo che le antiche e vecchie chiese sono un tripudio di affreschi. La gente “leggeva” quelle immagini e “credeva”, cioè intuiva anche senza capire.
Però, nell’anno 2025, siamo disabituati alla “lettura” delle immagini costruite con simboli come le pitture emozionali di cui “Eros e civiltà” fa parte. Oggi la gente vuole la foto, il film, la realtà aumentata. Per questo l’arte moderna si pone fuori della figurazione e si fa astratta, oppure è un’arte provocatoria come la pop art. Che le forme nuove (astrattismo, pop art e murales) siano arte è discutibile. Il resto è però un passato che sopravvive.
L’opera in questione è veramente bella. Sinceramente ho avuto un po’ di difficoltà all’inizio, nel capirne il senso, tuttavia ragionandoci credo di aver colto qualcosa.
C’è da dire che è un’opera abbastanza complessa, molto ricca di dettagli ed elementi diversi, questo aumenta la difficoltà di comprensione.
Quel che credo di aver capito – e potrei aver sbagliato – è che l’artista mette in contrapposizione due modi di vivere e di essere.
Da un lato c’è l’uomo a sinistra: grigio, triste, un uomo che volontariamente sceglie di auto-castrarsi limitando la propria natura, guidato dai costrutti della “civiltà”, soprattutto rappresentata dalla castrazione che ci impone la religione.
Dall’altro c’è la donna a destra, che rappresenta invece l’eros. Cresce dalle radici di un albero, rigogliosa, luminosa. Non è soggiogata dalla civiltà, ma abbraccia il dionisiaco senza essere dominata, mostrando la libertà di cui la civiltà ci priva. Libertà soprattutto trasmessa dalla sua nudità esposta senza alcuna vergogna, e anzi raffigurata positivamente.
Se a fianco dell’uomo a sinistra c’è il prete, simbolo della castrazione imposta dall’alto, a fianco della donna a destra c’è un bambino, simbolo di quella libertà che i fanciulli non hanno timore a esprimere, in quanto liberi da ogni costrutto sociale.
Insomma, limitandomi a un’analisi superficiale, questa opera mi sembra raffigurare una dicotomia che, declinata in diversi modi, si trova in vari filosofi contemporanei: mi vengono in mente Nietzsche, Freud, ma anche Adorno e Horkheimer. Ovvero la dicotomia, appunto, che separa eros e civiltà: da un lato il desiderio espresso nella sua totale libertà, dall’altro la limitazione del desiderio nata da credenze e regole sociali.
Questa è la mia lettura dell’opera, per quanto possa valere.