Solo un racconto – Disaffezione: a cosa?

Dalla fede all’ateismo: si spezzano i legami con i luoghi, i riti, le norme, le parole.


Nel secondo articolo di questa serie, Susanna Labirinto, teologa atea, prosegue nella narrazione della perdita della propria fede.


Quando non mi sento più a casa in una chiesa, quando non sento la necessità di pregare, non mi riconosco nell’etica, non riconosco le figure della gerarchia come significative, quando parlo un’altra lingua: ecco che capisco che sono uscita dalla Chiesa e non ci tornerò.

Ho assistito a un deciso cambiamento – parliamo grosso modo del quarto di secolo successivo al Concilio Vaticano II – nel linguaggio della Chiesa (cattolica italiana): sono stati introdotti concetti nuovi, a sollecitare il senso di identità ecclesiale. Uno degli elementi di maggiore insistenza era il senso di appartenenza. Percepire sé stessi come cattolici non era più scontato, forse. Tanto meno si poteva far leva sul senso del dovere, in una società che stava evidentemente cambiando le proprie strategie pedagogiche dopo il ’68. Era un ragionamento che da bambina fino alle soglie dell’adolescenza sentivo come convincente: tutti abbiamo bisogno di appartenere. Il contrario – la solitudine – suonava impraticabile. Nel vocabolario di catechisti e animatori, nei primi poster giganti che cominciavano a comparire, nelle prediche dei sacerdoti più giovani e aggiornati: la famiglia semantica del gruppo era dominante.

Già in quella parte di adolescenza in cui contestare è d’obbligo sentivo la fascinazione svanire. Il fatto che storicamente gli uomini abbiano sempre sentito la necessità di una identità collettiva, più che solleticare il mio orgoglio, mi suonava come «di branco». Trovavo bellezza in un’identità nazionale linguistica, artistica e letteraria, trovavo radici nelle parole dei Greci. E cominciavo a chiedermi se quelle bibliche non fossero simili: un immenso bacino di idee, simboli, parabole. Ho successivamente dedicato agli studi biblici una vera montagna di ore e di energie. Da adolescente le simbologie religiose erano il mio nutrimento, benché cercassi una declinazione più individuale che collettiva.

Oggi sono ancora così: le letterature – greca e biblica come capofila a pari merito – sono la fonte a cui attingo per descrivere e descrivermi. Ci trovo dentro echi di una tenerezza di sguardo verso gli esseri umani nella loro fragilità. Non la chiamo più fede: agnosticamente sospendo il giudizio teologico. Non ritengo tuttavia che quel senso di familiarità alle istanze della religione non abbia lasciato alcuna traccia.

Luoghi

La prima dimensione simbolica che si frantuma (significato/significante) è quella del posto fisico: la chiesa intesa come edificio. La «casa dei credenti», il luogo in cui ci si raduna per un «pasto» ha avuto un fascino misto a inquietudine fin da quando ero molto piccola.

Ricordo il freddo, d’inverno. A volte il tempo sembrava non passare mai, perché non riuscivo a scaldarmi. C’era una canzoncina famosa, in quegli anni, incisa nei 45 giri con la voce che raccontava le fiabe, che a un certo punto faceva così: «…non serve l’ombrello, il cappottino rosso, la cartella bella per venir con me / basta un po’ di fantasia e di bontà…». Io la risentivo nella mia testa e ridevo, perché pensavo che in quel momento il cappottino serviva eccome. Ero piccola, confondevo la voce del cantastorie con quella di Dio, pensavo che lui volesse da me fantasia e bontà, gli promettevo che avrei fatto proprio così: solo un po’ di fantasia e di bontà. Però in chiesa servivano il cappottino e anche la sciarpa.

L’estate, invece, entrare in chiesa era gradevole. La cosa fastidiosa la ricordo nel periodo dell’adolescenza, quando si usava indossare il «prendisole», un vestito senza maniche autorizzato dalla moda ma non dalla Chiesa. Io mi chiedevo perché potevo andare in giro con questo vestito se poi non potevo entrare in chiesa: era decente o indecente? Dovevo provare vergogna a mostrare le braccia oppure no? Se Dio, che vede tutto, fuori mi vede così, perché dovrebbe non volermi vedere dentro allo stesso modo? Oltre alla scomodità pratica di doversi portare qualcosa per coprirsi, c’era la discrepanza tra il messaggio di familiarità e accoglienza con cui mi avevano sempre chiesto di vivere questo luogo e il messaggio di pudore e sacralità che si nascondeva dietro il divieto. Questo mi turbava. Oserei dire che il primo sguardo malizioso alle braccia nude me lo ha messo in testa una suora.

Un ruolo fondamentale nella storia del rapporto tra me e la «casa del Signore» è giocato dal soffitto. Altissimo, come in tutte le chiese, dipinto con temi apocalittici, come spesso accade. Ho numerose occasioni, nella memoria, in cui vedo me stessa guardare per aria e osservare quella donna in azzurro ai cui piedi si attorciglia un serpente. La bambina spaventata che aveva paura che il serpente le mordesse i piedi a sua insaputa è stata ben presto rimpiazzata dalla ragazzina a cui era chiaro che quella era la Madonna, che il serpente era solo la rappresentazione del Male e che «sotto i piedi» significava «definitivamente schiacciato». A quel punto spuntavano le due schiere di personaggi: quelli mezzi nudi con le facce cattive in mezzo a serpenti un po’ meno dominati, e quelli vestiti da preti e da cardinali con le facce indecifrabili in mezzo alle nuvole e vicini a Maria. Le espressioni dei santi non lasciavano trapelare alcuna emozione. Non erano felici di essere là, ma non erano nemmeno tristi come quelli giù con i serpenti. Perché?

Quando ho cominciato a fare del turismo con una certa frequenza ho capito che i soffitti, il tetto, i dipinti, le colonne, il rosone, gli altari, il coro erano così per ragioni storiche, tutto aveva delle ragioni artistiche. Salvo brevi momenti in piccole cappelle spoglie, in cui ritrovavo una forma di spiritualità, le chiese sembravano dividersi in antiche o nuove, belle o brutte, conservate bene o male. L’enorme patrimonio di arte e perfino di ricettività – foresterie, conventi, parrocchie: vedevo tutto in termini di stanze, in gran parte vuote – ha cominciato a sembrarmi sproporzionato. A fronte di tanta ricchezza, nessuna povertà veniva lenita. A fronte di tanto impegno cattolico per l’aiuto dei poveri, nessun luogo di culto si trasformava in ostello con dentro gli ultimi. Quando mi sono chiesta quanto costa – in termini economici, ma ancor più in termini di sostenibilità ecologica – riscaldare una chiesa, ho provato quasi vergogna. Le chiese hanno completamente perso quella sensazione di familiare e di casa.

È bene che io lo dica subito, per la prima e immagino non ultima volta: non c’è nulla che il cambiamento nei luoghi di culto avrebbe potuto trattenermi dall’essere ciò che sono oggi. Certo, se le chiese si fossero trasformate in centri di accoglienza, avessero risparmiato sul riscaldamento, fossero diventate occasioni di lavoro per disoccupati, fossero state più accoglienti… magari ci sarei entrata più spesso. Probabilmente però sarei comunque atea.

Sarebbe disonestà intellettuale, la mia, non aggiungere la rabbia che provo ogni volta che scopro tesori artistici non fruibili dal pubblico, ma riservati a chi è vicino alla Chiesa cattolica. In Italia il patrimonio artistico è sottoutilizzato anche perché è monopolizzato. Ma questa è un’altra storia, e purtroppo io non sono tipo da battaglie in nome dell’economia e dello sviluppo, in nome dell’arte o in nome di chiunque o di qualunque cosa. Ho grande rispetto per i luoghi di culto, forse perché ho grandissima tenerezza per le persone reali che li frequentano.

Riti

Oggi posso tornare dentro una chiesa per partecipare a un rito, nel rispetto totale di chi vi accorda un significato simbolico importante, ma posso farlo senza aderirvi. È come se mi invitassero a un matrimonio musulmani, ebrei o non-cattolici: rispetterei i riti e le usanze, benché estranei a me e alla mia storia.

Da piccola andavo in chiesa tutte le domeniche, cantavo, pregavo, mi inginocchiavo, ricordo anche un mese di maggio in cui sono andata dalle suore a dire il rosario. È stata un’esperienza di cui ricordo solo un particolare: le suore avevano regalato a tutte noi bambine – non ricordo maschi, ma non ne sono certissima – una coroncina con dieci grani. Eravamo alle Elementari, ma credo le suore ci conoscessero dai tempi dell’asilo. In base alla nostra personalità e al nostro comportamento ci hanno assegnato un colore diverso: le coroncine azzurre corrispondevano ai misteri gloriosi (per bambine superbuone), le rosa ai misteri gaudiosi (per bambine buone) e quelli rossi ai misteri dolorosi (per bambine che dovevano diventare più buone grazie all’aiuto di Maria). Se oggi qualcuno mi chiede cosa posso dire del rituale legato al rosario, non so assolutamente cosa rispondere, non ne ricordo nulla. Ma questo sì: misteri gloriosi, gaudiosi, dolorosi. E io, per fortuna, ero rosa. Come mia sorella, peraltro: avevo seriamente temuto di non essere nella sua stessa categoria.

Crescendo ho imparato che non era importante la ritualità in sé, quanto piuttosto un vero dialogo con Dio, anche con parole proprie. Ricordo che in prima Media la nostra maestra delle Elementari ci fece il catechismo per la cresima. La adoravo. Una delle donne più importanti della mia vita. E il fatto che ci trattasse da grandi, non più come bambini delle Elementari, sottolineava l’importanza di quella svolta nella fede. Ero così orgogliosa di appartenere a quel mondo fatto di fede «vera»… Smettere la recita mi è sembrata una delle conquiste più importanti del mondo e della Storia. Esisteva il pregare come relazione: fine delle formule. Fine del rosario, ovviamente.

Un’esperienza di preghiera interessante, nella mia adolescenza inoltrata, è stata quella di qualche giorno in un eremo. Il monaco che mi ha accolta era intelligente, straordinariamente «moderno» nel linguaggio e nelle sottolineature, ma anche molto rigoroso nello scandire la giornata con i Salmi, cantati con le melodie del canto gregoriano, e con il lavoro: senza un pezzetto di terra da governare forse non sarei riuscita a resistere in tutto quel silenzio. In quei giorni tutto aveva senso: anche quello che sembrava pura forma era diventato sostanza. Per anni ho pregato con la liturgia delle ore. Non era un obbligo, dato che lo facevo in assoluta solitudine, né una finzione. Sentivo vero quello che leggevo e recitavo, mi permetteva di riflettere sulla vita e sul senso dell’esistenza.

La Messa è diventata noiosa per prima. Se la preghiera coi Salmi riuscivo a salvarla, la Messa no. Inginocchiarmi, a un certo punto, è diventato impossibile: mi sembrava di rispondere «a bacchetta». Quando il prete diceva «Preghiamo»: tutti in piedi. L’ho studiata, anche, la Liturgia. Le anafore, il senso dei momenti da riservare a un atteggiamento formale diverso: tutto torna. Ma non tornava dentro di me. Di sicuro la mia indole refrattaria all’obbedienza, all’abitudinarietà, al formalismo ha avuto un certo peso nel rifiuto della dimensione rituale della religione, ma c’è qualcosa che ha a che fare con la fede stessa. Per fede, si accetta anche ciò che non si capisce. Se anche i riti mi fossero apparsi vuoti di significato, ma vi avessi scorto un senso, avrei trovato un modo. L’accettabilità non è una questione di testa, o almeno non solo.

Analoga reazione «urticante», nella ritualità cattolica, mi si è scatenata a proposito della musica. Da vera rocker, adoro immaginare la vita con una colonna sonora. Cantare mi mette gioia. Nelle chiese la svolta musicale è stata evidente, con buona pace delle vecchiette gracchianti che a un certo punto hanno visto arrivare le chitarre e hanno temuto il peggio. Non è stata la bruttezza delle canzoni. Che poi, a volte, erano perfino carine. Ne ricordo una, Symbolum 77. Immagino significhi che è stata scritta nel 1977, anni buoni per le «chitarre». Che poi fosse un Simbolo, cioè un Credo, non era chiarissimo a tutti: qualcuno la scambiava per un canto d’amore e ne dedicava pezzi di frasi all’amato o all’amata. Da un certo punto in poi non ho più cantato. Non mi dava gioia l’essere là: sapeva di finto.

La ritualità è una componente forte del sentimento identitario: fare gli stessi gesti permette di riconoscersi negli altri intorno a sé. Gli studi sociologici sul calcio, sui concerti e le discoteche, sui comportamenti di massa negli acquisti, negli anni della mia adolescenza e degli studi universitari mostravano sempre di più come le persone cercassero «nuovi templi». La diffusione di questa consapevolezza, che alcuni cattolici utilizzavano per cercare di frenare l’esodo dalla Chiesa, non ha solo creato una matura coscienza di sé e delle istanze collettive: ha anche permesso che si sgretolasse l’idea, in me e in un paio di generazioni limitrofe, di una spiritualità connessa ai riti cattolici. Potevano esserci altre ragioni e altri bisogni, dietro l’andare in chiesa. E quegli stessi bisogni potevano essere soddisfatti altrove.

Norme

Il cristianesimo come un’etica è stato il medesimo cavallo di battaglia di due approcci filosofici alla religione diametralmente opposti. Da una parte l’anima integralista, per la quale believing, belonging e behaving sono inscindibili. Dall’altra quella laicizzante, per cui solo l’etica è la vera rivoluzione del cristianesimo. Premetto che l’esito della mia posizione sarà lontano da entrambe, ma sento il bisogno di raccontare queste due prospettive epistemologiche, dato che entrambe hanno esercitato sulla mia generazione un’attrattiva a tratti ipnotica, a tratti ansiogena. Chiedo spazio, in questo caso, anche per le conseguenze psicologiche che l’identificazione tra etica e religione ha avuto su di noi. Noi – quelli di noi che oggi sono adulti – siamo stati al centro di un sistema educativo che – in buonissima fede, immagino – ha lasciato segni non belli. Ma torniamo a raccontare.

Il primo grappolo di idee nasce intorno alla convinzione che la fede si esprima dentro la Chiesa e attraverso un comportamento consono a questa appartenenza. Se stai dentro, ti comporti bene. Se stai fuori, ti comporti male. Se stai fuori, non credi. Se non credi, ti comporti male. La dimostrazione più evidente di queste equazioni sembrava venire dai comportamenti sessuali e familiari. Dentro la Chiesa: famiglia sana, sessualità sana. Fuori dalla Chiesa: famiglia che si disgrega e sessualità libera e quindi potenzialmente impazzita. Sto semplificando, ovviamente, ma il martellante brusio della quotidiana pedagogia «cattolica» è stato più forte di un urlo. Magari sarebbe stato più facile scappare.

La Chiesa, in Italia, non si è mai espressa all’unisono: ho sentito preti liberal su anticoncezionali e rapporti prematrimoniali e preti difendere la «Humanae Vitae» con la stessa veemenza. Ci sono sempre state, ad esempio, frange vicine alle istanze giovanili e frange che le demonizzavano. Ci sono anche oggi siti web in cui si ammicca alla versione più moderna del cristianesimo e altri in cui si raccolgono firme contro il modernismo papale o si denuncia la corruzione di questo mondo contemporaneo. Ci sono credenti che insistono sui diritti di tutti, altri che lottano per i valori della famiglia, contro chi è «diverso».

Difficile dire quale etica sia ufficialmente quella cattolica, a meno di non attenersi al «Catechismo della Chiesa Cattolica», che poi non è nemmeno esente da detrattori interni. Certa è solo una cosa: non si può pensare che qualcuno che appartiene alla gerarchia della Chiesa possa sostenere che non è suo compito definire confini etici. Quali che siano, vanno posti. Il gregge senza il suo pastore si disperderebbe. La gente non saprebbe più cosa è giusto e cosa è sbagliato.

Sull’altro versante, a partire dalle «rivoluzioni» del ’68 e del Concilio, si trovano coloro che sostengono che il vero e unico cuore del cristianesimo è l’essere un’etica. Valori contrapposti a riti e struttura gerarchica. In qualche modo la presenza del messaggio evangelico ha senso perché rende migliori le società. Pace, giustizia, umanità: questo è ciò che Gesù avrebbe voluto. Anche qualche teologo si è spinto in questa direzione, senza mai fare affermazioni palesemente eretiche. Molti intellettuali laici hanno sostenuto questa tesi. Personalmente ne sono stata intrigata per un po’, ma non mi ha mai convinto. L’affermazione della trascendenza mi pare caratterizzi maggiormente una religione, piuttosto che i suoi valori, che spesso assomigliano al contesto culturale in cui ogni religione si incarna.

Nella mia mente, rispetto all’etica, sono accadute due cose distinte. Per prima si è affacciata la necessità di separare l’appartenenza alla religione dall’eticità dei comportamenti. Io mi sentivo parte della Chiesa, ma pensavo che i non credenti potessero essere bravissime persone. Di fatto, conoscevo atei convinti di gran lunga più generosi, accoglienti, corretti di molti cattolici. Solo successivamente sono arrivata a convincermi che non è necessariamente insito nella natura delle religioni stabilire delle norme di comportamento. Quando si studia la Bibbia con strumenti esegetici scientifici, si capisce quale sia stato lo spirito con cui, in quel contesto storico, i redattori del testo volessero mettere in luce come, rispetto alle norme morali correnti, una «Parola divina» avesse qualcosa in più da dire, rispetto alle filosofie umane. È interessante vedere come il Decalogo, ad esempio, superi le tradizionali categorie etiche. Solo una forma di ispirazione giustifica tanto coraggio. Questo pensavo, da studente di teologia. Poi però ho messo in relazione questo salto di «intelligenza» delle cose umane con altri e altri ancora. Nel proprio cammino l’uomo affina sempre di più la propria capacità di convivere con l’altro e si dota di categorie interpretative e di risorse per la convivenza che costruiscono la possibilità di un mondo migliore. Non c’è una vera ineluttabilità di un Dio che ci dica cosa fare e cosa no.

Passando dal piano della teologia a quello della vita ecclesiale, che ci sia bisogno di una sezione del «Catechismo» che dica che cosa è peccato e che cosa no è una di quelle cose che mi fa dire di me che non posso stare in questo posto. Se la Chiesa definisce se stessa come una fonte normativa, io posso accettare che non ho alcun diritto di contestare questo assunto, ma d’altra parte non posso pensare di farne parte. L’unico confine invalicabile della libertà dell’individuo è la libertà dell’altro. Far male a qualcuno è sbagliato perché fa male a qualcuno, per nessuna altra ragione. Ho provato per tantissimi anni a convincermi che forse devo considerare altri punti di vista, ma non ne vedo altri.

Nella fase di latenza mi è capitato spesso di esporre i miei dubbi a chi non ne aveva. L’obiezione più frequente è stata che era troppo comodo smentire l’autorevolezza della Chiesa, dato che così mi sarei autorizzata a fare qualsiasi cosa avessi voluto fare. È incredibile, a distanza di tanti anni, che davvero qualcuno potesse credere questa cosa. Non mi riferisco solo al fatto che chi mi conosceva avrebbe dovuto sentire la pateticità di questa affermazione applicata a me: non ho mai fatto male a nessuno, ho aiutato, ascoltato, accolto, fatto volontariato, e la cosa che mi è stata più difficile è stata «godermi la vita». Mi riferisco a tanti, tantissimi che come me hanno avuto il problema di «sentire di meritare». Che sia collegato o meno all’educazione cattolica, ho ascoltato tantissime storie in cui a un minimo traguardo corrispondeva un passo indietro, se non un’autocensura, quando non un’autopunizione. Mi sono convinta, nel tempo, che ognuno di noi fa solo quello che può. Non fa quello che deve: non siamo macchine. Né quello che vuole: non siamo dei. Siamo esseri umani limitati, imbrigliati dentro fragilità.

Sono diventata un’immorale? Certo che no, sono la stessa di sempre, con le stesse priorità: fantasia e bontà. Non credo più nel cantastorie-Dio né nel Dio dei miei genitori, ma se ho fatto o faccio del male a qualcuno è assolutamente senza volerlo, per errore o per limiti, mai per cattiveria.

Serve una morale in questo mondo pluralista? Bisogna fare molta attenzione con le risposte vecchie a domande nuove. Per me rimane valido che il limite è dato dall’altro. Il potere dell’uomo sull’uomo, la violenza, fisica e non: ecco che cosa temo. Ma credo che il vero argine contro l’abuso del potere di qualcuno su qualcun altro sia l’intelligenza. Consapevolezza di sé, degli altri, del bene che deriva da una convivenza in armonia. Per questa ragione, in tutto il periodo di latenza mi sono nutrita di nuove fonti, per la riflessione. Bibbia, Tradizione, Magistero: queste le fonti in Teologia. La Bibbia, letta con metodo storico-critico e con attenzione ermeneutica, può essere un’enorme opportunità di metafore, simbologie, parabole. La Tradizione teologica, come quella filosofica, va contestualizzata e accolta solo per superarla. Quanto al Magistero, onestamente non saprei proprio perché dovrebbe essere una voce autorevole. Gli Stati si dotano di norme per la convivenza, gli organismi sovranazionali propongono norme per la tutela dei diritti. Per quale ragione una gerarchia ecclesiastica dovrebbe avere una qualche influenza sul mio modo di vedere le cose?

Col passare degli anni, sempre di più, la dimensione del «sistema» mi ha fatto paura. Mentre c’è chi si sente rassicurato dall’idea che le Verità siano contenute in un organizzato sistema di gerarchie e processi razionali e di fede, a me fa star bene solo il pensiero che la verità sta nelle storie di ciascuno. Mi fanno paura quelli che hanno capito tutto. Ecco perché le mie fonti, in tutti questi anni, sono diventate le persone che incontro, le storie che leggo o che guardo. La realtà e la finzione – che contiene tanta verità – sono occasioni di riflessione, ci rendono migliori. Che lo possa fare una serie televisiva o un manuale di teologia non è un’affermazione eretica: è un fatto.

Poche righe, almeno, sulla sessualità. Dal giorno in cui qualcuno mi ha detto di essere omosessuale o transessuale, dal giorno in cui il dolore di qualcuno, nello stare in coppia o in famiglia, superava la possibilità di mantenere un impegno, dal giorno in cui il giusto sembrava violento… io sono convinta che le Chiese dovrebbero tacere. Non «dire cose diverse»: tacere.

Parole

C’è un assunto fondamentale che ho imparato dal mio periodo di latenza: dare i giusti nomi salva la vita. Definirsi in modi ambigui non serve a rendere fluida la nostra visione di noi stessi, serve solo a fare confusione. Non solo dentro di noi, ma anche con gli altri. Oggi non ho dubbi su di me. C’è poi una cosa che ho capito della comunicazione nella Chiesa: qualsiasi decisione in merito a «cambiare parole» non mi avrebbe fatta rimanere. Eppure nulla è indifferente nel modo in cui la Chiesa in Italia si esprime. Quanto pesano, le parole di chi parla di Dio…

Ho un ricordo nitido che ha a che fare con la prima parola che mi ha dato da pensare: «salvezza». Facevo le Elementari. L’anziano parroco ci aveva raccontato che san Domenico Savio un giorno era andato a confessarsi e non aveva detto tutti i peccati. Giratosi per andare via, aveva visto il diavolo. Allora aveva deciso di tornare dal sacerdote a dire tutto, sui suoi peccati. Così anche noi – aggiungeva il parroco – avremmo dovuto dire sempre tutti i peccati commessi, se volevamo essere salvati. Chiariamo subito che non mi aveva spaventata l’idea del diavolo. Immagino che mia madre mi avesse già ampiamente tranquillizzata, rispetto alla paura che non dovevo avere del diavolo, perché per lei l’amore di Dio era infinito e incondizionato. Non posso dire che l’idea di peccato mi fosse allora odiosa o mi sembrasse strana. Si trattava del vocabolario ufficiale: dire parolacce era peccato, così come litigare o dare le botte. Quello che non riuscivo a desiderare era di essere salvata. Peccare assomigliava a sbagliare, ma essere salvati… da che cosa? Questo era il punto: se cerchi la salvezza devi avvertire un pericolo, ma quale pericolo stavo e stavamo correndo? Da cosa dovevo stare lontana? Al peccato si rimediava con la confessione oppure chiedendo scusa, la salvezza doveva servire a qualcosa di più. Credo che nell’idea del nostro parroco ci fosse la dannazione, da evitare, ma non ricordo se lo aveva esplicitato. E comunque io non lo avrei capito. Sono passati anni, decenni, ho studiato teologia, ma ancora non sono convinta che chi chiede a Dio di essere salvato sappia davvero cosa sta dicendo.

L’altra parola incomprensibile, da sempre, è «misericordia». Stesso problema della salvezza, in più con la sensazione che fosse un po’ umiliante essere oggetto di misericordia.

L’aspetto incomprensibile, di questo vocabolario cattolico, è legato anche all’uso che se ne fa «come se» tutti lo considerassero gergo quotidiano. Ricordo di essere stata infastidita, più ancora che dall’uso rituale all’interno della Messa di espressioni vuote di significato, dal fatto che gli adulti – il prete e non solo – si rivolgessero a me bambina o – peggio! – a me adolescente con quelle stesse formule. Non parliamo del prete anziano che salutava con «Sia lodato Gesù Cristo» e della vergogna che ho provato la prima volta che l’ho incontrato da sola a dovergli rispondere «Sempre sia lodato»: dato che non capivo, mi sentivo stupida e avevo paura di dire la cosa sbagliata. Non parliamo nemmeno di concetti astrusi o irrazionali come la verginità di una madre o la risurrezione dei morti, che mi scatenava semmai fantasie plastiche, come per un funerale in cui la signora anziana era morta dopo l’amputazione di una gamba: come sarebbe risorta? Con la gamba, senza la gamba o con la gamba in cancrena? Parliamo piuttosto delle frasi ammantate di bontà quotidiana. Alla figlia di quella signora, ad esempio, il sacerdote, dopo la Messa, ha detto che il Signore l’avrebbe aiutata a capire. Capire cosa? La cancrena? O il senso della vita e della morte? Chi è il Signore? L’uomo Gesù, che non c’è? Il suo spirito nel Vangelo? La comunità dei fedeli che ti sostiene? Non avevo ancora chiaro il senso delle metafore e delle allegorie. Eppure, quando le metafore e le allegorie sono state il mio pane quotidiano, non sono stata capace di tradurre in vita quelle espressioni. Non le ho mai sentite mie.

Ancora un aspetto è fondamentale, per capire come le parole della vita nella Chiesa possono disorientare anziché essere di conforto: il contesto in cui tutti viviamo. La mia latenza ha il suo ultimo periodo, quello conclusivo, in concomitanza con l’entrata nella mia vita dei figli. Con l’arrivo di bambini ti si rovescia addosso un universo linguistico e di immagini che ti obbliga a ri-comprendere la realtà. Come si spiega a un bambino che deve prendere un antibiotico? Non gli chiedi di scomporre la molecola, ma di bere un cucchiaino con le fragoline così poi starà meglio. Ma le fragoline non sono la fonte di guarigione, sono solo il «vestito» che la casa farmaceutica ha messo per associare il buono al far bene, la speranza di guarigione alla fiducia nella mamma e nel papà.

Poi i neonati crescono e imparano da un orsetto e dal suo amico maialino che siamo tutti diversi, ma possiamo convivere, che siamo tutti fragili e pieni di paure, ma che ognuno è speciale a modo suo. Poi entrano in mondi magici, con il Signore degli anelli e il Signore Oscuro. Se a quel punto chiediamo a una suora o a una giovane catechista di dire ai nostri figli che il Signore li ama, dobbiamo avere tanta tanta tanta chiarezza dentro di noi, prima di pensare di poter riempire quei cervelli a nostro piacimento. Di insegnamenti è piena la vita: alcuni arrivano da adulti che hanno capito prima di te, altri arrivano dall’esperienza che ne fai, altri ancora dalle storie degli altri, vissute veramente o inventate per farti riflettere, nei libri o nei film. Vivendo le scoperte dei miei figli, ascoltandoli e facendoli parlare – e non parlando io –, ho ripescato nella mia memoria tutta la sensazione di contraddizione semantica con cui sono stata costretta a vivere metà della mia vita.

Ho detto nella premessa che una comunicazione diversa, da parte della Chiesa, non mi avrebbe convinta a rimanere. Più ancora che per luoghi, riti e norme, tuttavia, va detto che la Chiesa non può pensare di trattenere le persone con le parole giuste, ma deve sapere che con le parole sbagliate può farle scappare. Non basta una traduzione in «modernese»: è importante incontrare le persone reali con il loro linguaggio reale. Nella mia strada in uscita dalla Chiesa sono entrata in relazione con la post-modernità, ho capito che vivere nel mondo oggi non comporta soltanto il pluralismo delle posizioni ma anche una attenta delicatezza nella scelta delle parole. Mi rendo conto che parte della mia decisione di uscire si trova in questa mancanza di rispetto con cui troppo spesso le idee vengono espresse. A volte leggo affermazioni che cattolici di varia responsabilità fanno con disinvolta arroganza. Altre, fatte con umiltà e in punta di piedi, finiscono col ferire comunque chi viene descritto. È il caso delle definizioni date da un gruppo che ritiene di possedere la Verità a proposito di qualcuno che sta ai margini di questo sistema di comprensione. Ci sono ambiti in cui ho spesso sentito il bisogno di prendere le distanze: dalle posizioni cattoliche e ancora di più dalle modalità di espressione di queste posizioni.

Il sollievo più grande, nell’essere fuori dalla Chiesa cattolica italiana, è la fine della vergogna che sentivo nell’essere complice di una violenza verbale inammissibile. Di cui una gran parte dei cattolici nemmeno ha consapevolezza. Questa però non è un’attenuante, perché nella dimensione pubblica dell’esposizione di valori e idee c’è una componente ineliminabile di assunzione di responsabilità nei confronti di chi riceve il messaggio. Non avere consapevolezza dell’effetto che fa – soprattutto del male che può fare – è imperdonabile. Io non sono così: questo mi ha spinta, definitivamente, fuori.

Vorrei aggiungere che le parole sono pesanti, e pesa anche il modo in cui si dispongono e si collocano. Mi è capitato di leggere un passo dal «Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica»:

492. Quali sono i principali peccati contro la castità?
Sono peccati gravemente contrari alla castità, ognuno secondo la natura del proprio oggetto: l’adulterio, la masturbazione, la fornicazione, la pornografia, la prostituzione, lo stupro, gli atti omosessuali. Questi peccati sono espressione del vizio della lussuria. Commessi su minori, tali atti sono un attentato ancora più grave contro la loro integrità fisica e morale.
– Compendio al Catechismo della Chiesa Cattolica

La mia attenzione è stata catturata dall’espressione «ognuno secondo la natura del proprio oggetto», assolutamente insufficiente a giustificare una scelta di tipo testuale come l’elenco. Non siamo in presenza di una frase «scappata» a qualcuno in situazione di oralità, c’è un Papa (Benedetto XVI) che ha approvato con Motu Proprio, nel 2005. Elencare attraverso le virgole comporta mettere gli elementi sullo stesso piano. La prostituzione è un’espressione del vizio? Tutte le prostitute hanno scelto questa vita lussuriosa? Gli atti omosessuali e lo stupro possono davvero stare nella stessa riga?

(2/3 – continua)

Susanna Labirinto

(Foto: Doriana.giarratana)


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