Nel caso delle religioni delle tradizioni abramitiche i magisteri sono sovrapponibili, altroché.
Dal Seicento in poi, la tonaca e il camice di laboratorio non sono mai andati molto d’accordo. Anzi, per la verità si sono guardati sempre un po’ in cagnesco. Preti e scienziati ne avevano ben donde. I primi si vedevano erodere pian piano le certezze su cui fondavano la propria visione del mondo, messe in crisi dalle ricerche scientifiche che si impicciavano di ambiti prima riservati alla Rivelazione e alla speculazione teologica. Si cominciò con l’astronomia e si proseguì con le radici della vita e ora si conclude con la psicologia e la neurologia, che indagano nel foro interiore dell’uomo, dove dovrebbe annidarsi l’anima. Tutto quest’interrogarsi e scavare e dubitare appare, agli occhi del prete, molto blasfemo. Gli scienziati, dal canto loro, dopo l’abiura di Galileo e la condanna del darwinismo, confrontati poi con tutto l’apparato delle guarigioni miracolose e delle madonnine lacrimanti, hanno avuto gioco facile nell’accusare i preti di oscurantismo e di credulità.
Così, fra sospetto e sfiducia, si è andati avanti fino al Concilio Vaticano II, ossia fino al momento in cui la Chiesa cattolica si è trovata costretta a dover fare i conti con la modernità e a rimettersi in discussione in profondità. Un processo ancora in corso, fra slanci in avanti e resistenze. Non stupisce allora trovare scienziati cattolici – pochi e ridicoli, per la verità – che si lambiccano il cervello per giustificare la verosimiglianza dell’esistenza di Dio basandosi sulla cosmologia e sulla fisica delle particelle. I preti prendono la palla al balzo e citano «il grande fisico, che anche lui pensa che Dio esista, proprio sulla base della scienza». Del resto sarebbe sciocco negare che il Big Bang somiglia troppo al gesto di un Dio creatore per ignorarne le possibili implicazioni teologiche. E anche l’evoluzione della vita non esclude un intervento divino, qua e là nel corso dei milioni di anni. Insomma, il cosiddetto dialogo fra scienza e fede è oggi ampio e si sviluppa in un’ampia pubblicistica. Ha senso? Per niente.
Scienza e religione hanno in comune la pretesa di fare affermazioni sulla realtà. Ma qui termina la somiglianza. Perché opposti sono i loro metodi e i loro approcci alla conoscenza. Opposti e inconciliabili.
Per semplicità escludiamo subito dalla discussione i fanatici letteralisti, cioè coloro che prendono per vero tutto – tutto! – quello che sta scritto nei Libri sacri, così come sta scritto. È il caso degli evangelici americani ma pure dei fondamentalisti islamici. Se nelle Sacre scritture ci fosse scritto che la Terra è piatta, loro sarebbe terrapiattisti. Per loro fortuna non c’è scritto. Però c’è scritto che Dio ha creato il mondo in sei giorni e ha scatenato il diluvio universale, pertanto costoro negano tutte le scoperte scientifiche dell’astrofisica, della geologia, della biologia. Lasciamoli perdere, ché sono così assurdi da non meritare nemmeno una polemica.
Occupiamoci piuttosto di chi sostiene la compatibilità nella diversità. Una posizione con un sostenitore antico ma autorevole:
Io qui direi che quello che intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, ciò è l’intenzione delle Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo.
– Galileo Galilei, Lettera a Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana
Più di recente, fra i propugnatori della netta separazione fra scienza e fede ma con uguale dignità, c’è stato Stephen Jay Gould, con la sua tesi dei magisteri non sovrapponibili. In sintesi: la scienza si occupa della realtà empirica osservabile e formula teorie verificabili e falsificabili per descrivere i fenomeni naturali, mentre la religione si interessa del significato ultimo dell’esistenza e dei valori morali, esprime il rapporto dell’essere umano con il sacro e con la divinità e definisce i limiti etici del comportamento umano. I due magisteri – sostiene Gould – devono restare separati.
Appare ragionevole, no? Oggetti di indagine differenti e metodi diversi sembrano dividere la scienza e la religione in maniera ineluttabile. Come binari paralleli e destinati a non incontrarsi mai. Così, almeno, dovrebbe essere. Gli sconfinamenti, da una parte e dall’altra, producono risultati ridicoli, come il creazionista ingenuo che nega l’evoluzione e sostiene che i fossili vecchi di milioni di anni e le galassie distanti miliardi di anni-luce sono opera del demonio per indurre in tentazione i fedeli. Oppure lo Zichichi di turno che cerca nelle conoscenze scientifiche le prove dell’esistenza di Dio, fingendo di non sapere che Stephen Hawking, assai più autorevole di lui, si è trovato nel 1981 a un convegno in Vaticano, in udienza con Giovanni Paolo II, a pensare che le proprie teorie cosmologiche non facevano affatto comodo al Papa, perché uno spaziotempo finito e illimitato non ha bisogno di alcun atto di Creazione. All’estremo opposto, ma altrettanto ridicolo, troviamo lo scienziato ateo militante che, sempre riempiendosi la bocca con le ultime teorie della scienza, conclude senza scampo che il Dio creatore non esiste. Con certezza assoluta e inossidabile.
Dunque i due magisteri non sovrapponibili appaiono ragionevoli, almeno fino a quando si interagisce con qualche teologo di larghe vedute e non con un ottuso fondamentalista. Appaiono solo, però. Infatti, finché si sta a discutere di un generico Trascendente o al massimo di un Dio creatore e legislatore, ci può anche stare. Ma non è quello il Dio delle tradizioni abramitiche.
Il Dio delle tradizioni abramitiche è quello che, se lo preghi, esaudisce le tue richieste. È il Dio che fa i miracoli. Soprattutto, per i cristiani, è il Dio che è morto e risorto. Tutti questi sono, anzi dovrebbero essere dei fatti. Non discorsi filosofici astratti o prescrizioni morali. No, no: fatti. Fatti concreti. Per esempio la risurrezione di Cristo: per i credenti è un evento storico reale, accaduto in un ben preciso momento del I secolo d.C. nella Palestina occupata dall’impero romano. Non è un mito con una funzione edificante. Per loro è successo davvero.
Insomma, nel caso delle religioni delle tradizioni abramitiche i magisteri si sovrappongono altroché, perché sia la scienza sia la fede abramitica hanno la stessa pretesa: dire qualcosa sulla realtà empirica. E i due magisteri sono inconciliabili perché incompatibili sono i metodi applicati.
Il metodo scientifico si fonda sulla falsificabilità delle ipotesi: ogni scienziato, quando formula una teoria, deve specificare quali fenomeni, se osservati, la falsificherebbero. E quindi sottoporla alla critica spietata – spietata per principio, spietata per la natura stessa del metodo scientifico – dei suoi pari, che cercheranno appunto di falsificare la teoria sottoponendola al confronto con la realtà empirica. Si sostiene spesso che nella prassi scientifica non vale il principio di autorità: per quanto autorevole sia uno studioso, le sue idee vanno considerate alla pari con quelle dell’ultimo arrivato che ha un’opinione opposta. Ciò è vero. Ma un’autorità ultima esiste anche nella scienza: il confronto con i fatti, con l’evidenza sperimentale. A quell’autorità tutti si devono inchinare. Nondimeno, con questo vincolo, all’interno della comunità scientifica il dibattito, anche acceso, è ampio e profondo e nessuna – proprio nessuna – teoria è al di sopra della critica e della possibile revisione.
Agli antipodi è invece l’approccio della religione alla conoscenza, che si fonda sulla Rivelazione enunciata in un Libro sacro oppure ereditata per tradizione da un’istituzione i cui rappresentanti sono ispirati da Dio oppure acquisita tramite visioni o estasi mistiche, per i più fortunati che godono di cotanto privilegio. Questa conoscenza non può essere messa in discussione. Non può essere oggetto di dibattito. Non c’è alcuno spazio per possibilità alternative. Se non accetti la risurrezione di Cristo, non sei cristiano. Punto e basta. Fine della storia. Se i fatti, le osservazioni, la scienza, la razionalità, financo la logica contraddicono il dogma, tanto peggio per i fatti, le osservazioni, la scienza, la razionalità, financo la logica.
Questi due approcci alla conoscenza sono – com’è evidente – incompatibili nel modo più assoluto. Ora, finché la conoscenza che la religione ambisce a ottenere riguarda un Trascendente al di fuori di qualsiasi possibilità di sperimentazione, possiamo pure lasciarla nel suo brodo. Esiste Dio? È uno solo o sono tanti? Si interessa di noi? Ci ama? Ci odia? Oppure ha soltanto creato l’universo e adesso si fa i cazzi suoi? Tutte domande che esulano dall’ambito empirico. Interesse scientifico: zero. Invece cambia tutto quando la religione pretende di formulare affermazioni su fatti reali e concreti. Anche per la presunta risurrezione di Cristo, che a distanza di 2’000 anni non può essere verificata né falsificata ma che merita quanto meno un’indagine razionale da un punto di vista storico e una valutazione critica, senza pregiudizi né atti di fede, sulla sua compatibilità con le teorie scientifiche.
In conclusione, la scienza ha l’ambizione di dire qualcosa di «provvisoriamente non falso», la fede qualcosa di «vero». La scienza ambisce a una modesta, rivedibile «verità», la fede a un’assoluta Verità. Quando l’interesse di entrambe si appunta sulla realtà empirica, i loro metodi e le loro pretese non potrebbero essere più inconciliabili.
Che dire infine dell’etica? Dal «Trattato sulla natura umana» di Hume in poi, sappiamo che «essere» e «dover essere», conoscenza descrittiva e conoscenza normativa, sono differenti e vanno tenuti ben distinti. In breve: qualsiasi cosa noi scopriamo sul mondo non ci dirà mai come dobbiamo comportarci nel mondo. Perciò alla religione compete per lo meno la riflessione sull’etica? Dipende. Da un lato, chiunque può dire quel che gli pare sull’etica. A noi possono anche sembrare idiote o perfino fare schifo le prescrizioni morali delle religioni delle tradizioni abramitiche, ma di sicuro non possiamo e non vogliamo impedire a qualcuno di rispettarle, se non altro finché non viola la libertà di qualcun altro. D’altro canto per quanto riguarda l’etica la religione non può pretendere di operare in regime di monopolio. Anche la scienza qualcosa da dire ce l’ha. Infatti il comportamento umano e animale è un fenomeno osservabile, quindi suscettibile di indagine scientifica. Dunque, per esempio, esiste un insieme di valori morali condivisi da tutte le popolazioni umane? Se esiste, è condiviso da altre specie? Se esiste, come è comparso? Se esiste, può essere spiegato attraverso qualche meccanismo evolutivo? Certo, se pure rispondessimo a queste domande non avremmo comunque una guida morale infallibile – come peraltro pretendono di avere le religioni –, ma senza dubbio avremmo abbondanza di materiale su cui ragionare, discutere, confrontarci. Cosa che la religione evita sempre di fare.
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“la religione si interessa del significato ultimo dell’esistenza e dei valori morali, esprime il rapporto dell’essere umano con il sacro e con la divinità e definisce i limiti etici del comportamento umano”… e mica tanto! Le religioni abramitiche hanno come punto di riferimento un testo che glorifica genocidi, stermini di innocenti, pena di morte, lapidazioni, incesti, infanticidi, stupri, omofobia, misoginia, schiavitù. Questo nella teoria, ovviamente. Nella pratica, infatti, hanno fatto pure peggio: roghi, conversioni forzate, crociate, ghettizzazioni, inquisizioni, torture, genocidi, caccia alle streghe, colonizzazioni, ostacolo al progresso scientifico, pedofilia endemica, evasione fiscale, affari finanziari di dubbia natura. Ma perché’ io mi devo trovare un prelato in ogni comitato etico? Cosa ne sanno, questi, di etica piu’ di me? In che cosa sarebbero piu’ competenti di me sui limiti morali o etici del comportamento umano? Bisognava semplicemente radere al suolo il Vaticano 5 minuti dopo la breccia di Porta Pia. E invece no, ce lo siamo tenuto perché c’erano le stanze di Raffaello e la Cappella Sistina, e perché bisognava fare gli Italiani dopo l’Italia, e molti di loro erano Cattolici. E’ andata cosi, non ci possiamo fare nulla adesso. Tranne, ovviamente, buttarli fuori a calci da tutti gli ambiti non di loro pertinenza, in cui pretendono di mettere bocca e di avere un’opinione piu’ autorevole di chiunque altro. Le religioni devono semplicemente essere ridotte ad occuparsi degli aspetti scenografici della gestione del lutto, se proprio non le possiamo far scomparire dalla faccia della Terra.