Fede e ragione

O l’una o l’altra. Oppure la dissonanza cognitiva.


Copio dal Gruppo Facebook di uno dei tanti apologeti bigotti che appestano i social network:

Da laureato in Fisica ritengo che i vari Odifreddi e Flores D’Arcais abbiano fatto danni incalcolabili presentando la fede cattolica come un coacervo di superstizioni totalmente irrazionali. Creando questo gruppo voglio controbattere queste affermazioni dimostrando che la vera fede ha sempre un supporto razionale e che sono gli atei che ho nominato a non usare correttamente quella razionalità di cui si vantano.

E niente: fa già ridere così. Se pensiamo alla resurrezione di Cristo, alla Trinità divina, al peccato originale, alla verginità della Madonna, alla transustanziazione e al resto del cumulo di cazzate che per i bigotti sono Verità, la loro pretesa che il cattolicesimo sia razionale fa scompisciare dalle risate. Se possedessero un briciolo di onestà intellettuale, ammetterebbero di credere in quel pattume intellettuale per pura, semplice, elementare fede. Quindi in modo irrazionale, appunto.

Sicché adesso smettiamo di ridere e vediamo la differenza fra fede e ragione.

Prendo l’Enciclopedia Garzanti di Filosofia e trovo:

fede, termine che, nella sua accezione più generale, indica quelle forme di conoscenza che non possono essere garantite né da controlli empirici né da procedimenti razionali, e si riconducono perciò o a intuizioni soggettivamente convincenti, o a postulazioni assunte come principi di dimostrazione, o ancora a testimonianze degne di fiducia. In senso più stretto, la fede appare come la credenza in principi o verità religiose, in particolare quando si afferma che esse sono rivelate in maniera soprannaturale.
– Enciclopedia Garzanti di Filosofia

Insomma la fede è la convinzione che un fatto sia vero anche in assenza di prove. Anzi addirittura in presenza di prove contrarie. Poiché è indipendente dalle prove, la fede non può essere messa in discussione né sottoposta a critica. Dalla fede i credenti ricavano la assoluta, definitiva, totale certezza delle proprie convinzioni. Niente potrà far cambiare loro idea: le prove a favore li confermano nella fede, mentre le prove contrarie le rigettano oppure, da ipocriti quali spesso sono, le ignorano.

E la ragione? Per capire che cos’è, mi rivolgo a uno che le ha dedicato un libro intero.

Una definizione [di razionalità] più o meno corrispondente a come il termine è usato è «capacità di usare la conoscenza per raggiungere obiettivi». La definizione standard di «conoscenza» è a sua volta «credenza vera giustificata». Non definiremmo razionale chi agisce in base a convinzioni notoriamente false, come uno che cerca le chiavi dove sa che le chiavi non possono essere, o a convinzioni non giustificabili, provenienti, per dire, da una visione indotta dal consumo di droghe o da allucinazioni uditive invece che dall’osservazione del mondo o da un’inferenza a partire da qualche altra convinzione vera.
– S. Pinker, Razionalità

In sintesi: la razionalità è l’applicazione di princìpi logici all’evidenza empirica. Tanto basta per poter considerare assolutamente certe le sue conclusioni? No.

È vero che la logica garantisce la correttezza di un ragionamento. Nondimeno qualsiasi ragionamento parte da princìpi generali e da osservazioni empiriche. Princìpi diversi portano a conclusioni differenti. E le osservazioni empiriche sono limitate dal campo di indagine e dai limiti strumentali. Ecco il motivo per cui la scienza – massima applicazione della razionalità – non dice che cosa è certamente vero ma solo che cosa è provvisoriamente non falso. La conoscenza scientifica è in costante progresso e si fonda sulla revisione continua e sulla critica sistematica e spietata. Da questo progresso emerge non una Verità bensì una verità. Una verità subordinata alla quantità di prove disponibili e magari – ma magari anche no – coerente con l’insieme delle conoscenze già acquisite. Una verità tanto più accettabile quanto più numerose sono le verifiche indipendenti, però mai assolutamente certa.

La verità ricavata dalla razionalità è criticabile e falsificabile. È un difetto? Niente affatto: l’esigenza della critica da un lato garantisce un immenso spazio di libertà al pensiero umano e dall’altro lato consente di ampliare gli orizzonti della conoscenza. Siamo passati dalle teogonie mediorientali dell’Età del bronzo alla cosmologia quantistica del XXI secolo grazie alla razionalità scientifica, non certo grazie alla fede.

La fede è tetragona e ottusa: nulla può mutare le sue Verità. Che siano frutto di una presunta Rivelazione divina o di un’antica Tradizione o di un’ineffabile esperienza interiore, quelle sono e quelle rimangono. Non si giustificano. Non ce n’è bisogno: sono vere perché sì e basta. Il credente non può avere un pensiero critico. Se lo ha, lo applica ad altro, non alle Verità di fede. Lo vediamo nei casi degli scienziati credenti: dal lunedì al sabato fanno ricerca al massimo livello, discutono con i colleghi e scrivono paper applicando il metodo scientifico, tuttavia la domenica a Messa prendono il corpo di Cristo senza il minimo dubbio che il pane si sia trasformato nella carne di Dio. Si chiama «dissonanza cognitiva».

La razionalità possiede delle chiare regole di applicazione. Tu e io non siamo d’accordo? Ok, discutiamo. Cioè portiamo i nostri argomenti migliori, sotto forma di ragionamenti logici e di osservazioni empiriche, e cerchiamo i difetti nel ragionamento dell’altro. Dobbiamo essere nel contempo agguerriti e disponibili. Agguerriti per demolire gli argomenti altrui. Disponibili perché pronti ad accettare di aver torto. Alla fine si scoprirà che io ho torto, oppure che tu hai torto, oppure che abbiamo parzialmente torto entrambi e la verità – sempre provvisoria e rivedibile – sta nel mezzo, oppure che abbiamo completamente torto entrambi e la verità – sempre eccetera – sta da tutt’altra parte.

Invece la fede? Boh. La fede non ha regole di applicazione. Nessuno sa come usarla. Come si può sapere se e quando viene applicata male? Come si distingue la fede genuina dall’autosuggestione? Non si sa. Non c’è modo di decidere.

Prendiamo il caso dei fedeli di due religioni differenti. Per esempio un cristiano e un musulmano. Entrambi sono convinti che il proprio Dio è l’unico vero e che si è rivelato attraverso un ben preciso Libro sacro. Entrambi pensano che l’altro credente sia nell’errore e che abbia opinioni sbagliate, nutra credenze false, rispetti precetti morali abominevoli, pratichi riti assurdi, conceda fiducia a quanto scritto in un Libro fallace.

Molti credenti si fermano lì: credono e basta. Per loro è più che sufficiente. Tutto sommato sono i più onesti. Non sono fastidiosi, di solito: se ne stanno per i cazzi loro, con la loro fede nel loro Dio, e non frantumano le gonadi al resto del mondo. Almeno finché, sulla base della credenza in quel Dio, non pretendono di condizionare le vite altrui, comprese le vite di chi di quel Dio se ne sbatte.

Poi ci sono gli apologeti. Sono quelli che si sono ficcati in mente di difendere le ragioni della propria fede. Siccome però sono consapevoli che «Non so spiegare perché credo in quel Dio, ma ci credo lo stesso» non vale un cazzo come difesa in una discussione, allora cercano qualsiasi pseudoargomento, compresi quelli inverosimili e quelli già screditati dalla razionalità e dalle scoperte scientifiche. Divertente per noi è osservarli dal di fuori e confrontarli fra loro.

Torniamo al cristiano e al musulmano. Entrambi propongono argomenti che ritengono convincenti, ma che di fatto convincono soltanto loro stessi. Il cristiano ti dirà che la prova della verità del messaggio evangelico sta nel fallimento di Cristo: un Dio fattosi uomo ma riconosciuto solo da pochi e finito umiliato e crocifisso come l’ultimo degli ultimi. Come può essere stata inventata una storia così assurda? I seguaci di Gesù non avrebbero mai potuto ammettere il fallimento del proprio Maestro. Perciò, se lo hanno ammesso, se lo hanno perfino tramandato, allora quegli eventi devono essere accaduti davvero. Dunque il contenuto del Nuovo testamento deve per forza essere vero. D’altronde il musulmano ti dirà il contrario, ossia che la prova della verità del messaggio coranico sta nel successo di Maometto: dalle profondità del deserto, un umile cammelliere fonda una fede che nel giro di pochi decenni si espande dall’India fino alla Spagna. Come può essere stato possibile, se Allah non ha aiutato i seguaci del profeta? Così il cristiano e il musulmano si sentono confermati nella propria fede ma nessuno dei due convince l’altro. Infatti ciascuno non crede per quel motivo lì, per quell’argomento lì. Piuttosto ciascuno crede perché sì, crede perché lo hanno indottrinato quand’era bambino e fin dall’infanzia non ha mai applicato il pensiero critico alle proprie credenze e solo dopo, a posteriori, è andato a cercare gli argomenti a favore. E li ha trovati, com’è ovvio: se ci si lambicca abbastanza, si possono inventare presunte prove arzigogolate e capziose a sostegno di qualsiasi tesi.

Se becchi uno di questi apologeti, ponigli alcune domande. Per esempio, se è cristiano, chiedigli: «Hai mai dubitato, magari per un attimo, che Gesù Cristo sia risorto?». Se nello specifico è cattolico, chiedigli: «Ti è mai sorto il dubbio che forse l’ostia consacrata non sia il corpo di Cristo?». E ancora: «Riesci a concepire un argomento, un ragionamento, un fatto che ti possa convincere che la Verità della tua fede, che per tutta la vita hai tenuto per certa e sicura, sia falsa?». Se la risposta è «Sì», chiedigli come ha superato – razionalmente, eh!… ché altrimenti non vale – quei dubbi e quale argomento, ragionamento, evento metterebbe in crisi la sua fede. Se invece la risposta è «No», quell’apologeta è tutto fuorché razionale.

Poi, certo, uno può creare su Facebook un Gruppo apologetico cattolico con pretese razionaliste. Però fa ridere. Appunto.

Choam Goldberg

(Foto: Rijksmuseum)


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