C’è Dio e Dio

E ognuno merita un punteggio diverso sulla scala di Dawkins.


La fede in Dio è razionale: c’è un intero settore dello zoo dei bigotti – ossia il gregge degli apologeti cattolici al pascolo nei social – che ha fatto di questa tesi il nucleo della propria propaganda. Troviamo la stessa tesi nel magistero ratzingeriano, secondo il quale fede e ragione sono compatibili. Eppure rimane una tesi priva di fondamento. Anzi proprio sbagliata.

L’onere della prova spetta sempre a chi sostiene una tesi, mai a chi la nega. Di primo acchito sembra una pretesa un po’ eccessiva, ma se ci pensi è piuttosto scontata. Se ogni tesi fosse legittima a prescindere dalle prove, tutto diventerebbe possibile: l’esistenza di Dio ma pure quella dei troll della caverne e delle fatine dei boschi. Puoi dimostrare che non esistono? No? E allora esistono. O quanto meno devi sospendere il giudizio, in attesa di prove contrarie.

Attenzione però: una tesi può essere sia positiva sia negativa. Anche «Dio non esiste» è una tesi, il cui onere della prova spetta a chi la sostiene. In assenza di prove, questa tesi non può essere accettata. E dunque?

Dunque bisogna fare un po’ di chiarezza sui termini.

Prendiamo «ateismo». Composto da «teismo», che significa credenza nell’esistenza di Dio, e da un’alfa privativa che ne implica l’assenza, in sostanza significa «mancanza della credenza in Dio». Quindi è ateo chi non è teista, ossia chi non pensa che Dio esista. Spesso questa posizione viene definita «ateismo negativo» o «ateismo debole» ed è stata difesa in particolare da Antony Flew, filosofo ateo prima di diventare deista – ma non teista, giacché non ha mai creduto nel Dio abramitico – negli ultimi anni della propria vita. In questo senso sono atei tutti i bambini senza un indottrinamento religioso. Un bimbo di tre anni sviluppa forse da solo il concetto di divinità? No. Se nessuno gliene parla, neppure gli viene in mente. Di conseguenza ogni bambino è, nella condizione naturale e senza condizionamenti culturali, ateo. Infatti non pensa – perché proprio gli manca il concetto – che Dio esista.

Diverso è il cosiddetto «ateismo positivo» o «ateismo forte». È il caso di chi pensa che Dio non esista. E – riflettici bene – è differente da chi non pensa che Dio esista: per l’ateo debole la negazione si applica al verbo «pensare», per l’ateo forte al verbo «esistere». Qui c’è una tesi ben definita: l’entità chiamata «Dio» – peraltro da definire con chiarezza – non c’è. Per lungo tempo questa è stata la definizione più comune, diffusa e condivisa di ateismo, e soltanto di recente ha cominciato a prendere piede la più ampia e inclusiva versione dell’ateismo debole. Tuttavia l’ateismo forte, essendo una tesi, va sottoposta all’onere della prova: l’ateo forte può dimostrare che Dio non esiste?

Consideriamo ora «agnosticismo». Qui l’alfa privativa agisce su «gnosticismo», che non è l’antico movimento religioso esoterico e iniziatico bensì rappresenta la conoscenza: la gnosi, appunto. In sintesi: l’agnostico è chi non sa. Nondimeno si può non sapere in diversi modi. Anzitutto perché non si conosce il problema e si ricade nell’ateismo debole. Oppure perché si ritiene che la questione sia intrinsecamente irrisolvibile: «Dio esiste? Boh. Ignoriamo e ignoreremo sempre». O ancora perché si ritengono equiprobabili le possibili risposte: «Dio esiste? Fifty-fifty. Perciò non decido».

A molti l’agnosticismo dell’«ignoriamo e ignoreremo sempre» sembra la soluzione più razionale. Si tratta dell’agnostico che agli atei obietta: «Puoi dimostrare che Dio non esiste? No? Allora pure tu fai un atto di fede, come i credenti!». Per inciso, la stessa accusa è mossa dal credente: non essendo dimostrabile la non esistenza di Dio, anche l’ateismo è una fede. Già, ma quale Dio?

Arriviamo al nocciolo della questione: che cos’è Dio? Così come è stato concepito nella cultura umana, Dio può essere parecchie cose.

Dio può essere un’entità materiale, come gli Antichi immaginavano le proprie divinità. I primi esempi che vengono in mente sono gli dei greci. Però, se appena si amplia lo sguardo sul passato, si constata quanto altrettanto concrete fossero le divinità mediorientali. Compreso Yahweh: nel migliore dei casi i credenti contemporanei lo ignorano in buona fede o nel peggiore fingono in cattiva fede di non saperlo. Basta leggere l’Antico testamento per constatarlo: Dio fa e disfa, si muove, urla e strepita e addirittura s’incazza per la puzza di merda quando si aggira per gli accampamenti. Più materiale di così! La spiritualizzazione di questa divinità tanto concreta arriva assai dopo. Nemmeno con il cristianesimo, per la verità: anche il Dio di Gesù è materiale. Affinché diventi una divinità trascendente bisogna aspettare l’assimilazione, da parte della tradizione abramitica, del pensiero filosofico ellenistico, che d’altronde ormai si stava orientando verso un monoteismo astratto. Da lì viene fuori il Dio trascendente dei cristiani. Che però non ha mai perduto alcune caratteristiche antropomorfe: il Dio cristiano ordina e proibisce, premia e punisce. Eredità di quel Dio materiale sono i dogmi cattolici della resurrezione della carne alla fine dei tempi e dell’Assunzione in cielo con tutto il corpo della Vergine Maria. A maggior ragione è concreto Allah, influenzato dal giudaismo contemporaneo al Profeta e di una povertà imbarazzante sul piano teologico, neanche paragonabile alla sofisticatezza raggiunta dalle seghe mentali dei teologi cristiani.

Dunque Dio che cos’è? Se non un essere materiale, come Zeus o Yahweh nell’Antichità, allora è un’entità eterna e trascendente. Ovvero sta fuori dalla realtà immanente, misurabile e verificabile. Questo Dio astratto è fuori dallo spazio e dal tempo: esiste in una condizione esterna all’universo, in un eterno presente, e tutta la realtà immanente, ogni luogo e ogni istante, è presente ai suoi occhi. Come ciò si possa conciliare con il libero arbitrio umano non si capisce, ma questa è un’altra storia sulla quale soprassediamo. Tu non riesci a immaginare un Dio siffatto? Ovvio: tu sei un essere materiale, vincolato alla realtà immanente, pertanto la comprensione di quel Dio non è alla tua portata. Soprattutto non puoi dimostrare che non esiste.

Eh, già. Essendo lui trascendente, di quel Dio non si può fornire una prova empirica. Non lo si può vedere, toccare, misurare. Tutt’al più si può proporre qualche argomento logico. Ci ha provato Anselmo d’Aosta nell’XI secolo con l’argomento ontologico, ma le radici delle sue riflessioni risalgono fino a Parmenide. Purtroppo per Anselmo, la prova ontologica, dopo la sua demolizione da parte di Kant, è finita nel cestino della filosofia. Qualche apologeta la propone tuttora e magari cita perfino la sua versione riadattata da Gödel. Di solito lo fa per sentito dire, perché di logica non capisce un cazzo. Non importa: suona bene e sembra dare autorevolezza. L’importante è poter dire: «Anche Gödel lo ha dimostrato!». Tanto chi vuoi che vada a verificare?

Tutte le altre cosiddette «prove dell’esistenza di Dio», così come sono state escogitate da due millenni di riflessione teologica, nascondono un presupposto: Dio è trascendente, ma interagisce con la realtà immanente. Per esempio il Kalam, una versione dell’argomento cosmologico: siccome tutto ciò che inizia a esistere ha una causa e siccome l’universo ha iniziato a esistere, allora l’universo ha una causa ed essa è Dio. Ma come e perché un Dio trascendente dovrebbe intervenire sulla realtà immanente? Boh. Resta un fatto: tutte queste cosiddette «prove» falliscono quando vengono analizzate in maniera razionale alla luce delle conoscenze scientifiche moderne. Nel caso del Kalam si può ipotizzare un universo eterno che non ha mai iniziato a esistere. Inoltre dopo la rivoluzione concettuale della fisica quantistica il concetto stesso di causa non è più proponibile.

Insomma non si può dimostrare che il Dio trascendente esiste. Tuttavia – l’onestà intellettuale impone di riconoscerlo – non si può neppure dimostrare che non esiste. Che cosa dobbiamo pensare dunque di questo Dio?

Dobbiamo pensare la stessa cosa che pensiamo per ogni altra entità di cui non esiste la prova: è inutile. Non pensiamo che esista. Sul Dio trascendente, il Dio dei filosofi, assumiamo una posizione di ateismo debole. Finché non ci viene proposto un argomento cogente a favore, non cambiamo la nostra posizione. Ne discutiamo volentieri dopo cena con qualche amico filosofo deista: è comunque uno stimolante esercizio intellettuale. Ma niente di più. Per quanto riguarda le nostre vite, ‘sticazzi. Del resto è ovvio: ammesso pure che esista, se Dio è trascendente non c’entra nulla con l’universo. Quindi, che ci sia o non ci sia, per noi non cambia niente. Questo è «ateismo pratico» o apateismo.

Del tutto differente è invece un altro Dio: la divinità della tradizione abramitica. Cioè l’erede del Dio della Tanakh, che ritroviamo nel Nuovo testamento e nel Corano. Quello sì è un Dio impiccione, che crea ma pure manipola e condiziona l’universo e chi ci vive dentro. È un Dio che ordina e proibisce, che premia e punisce, nonostante non s’incazzi più per la puzza di merda. Soprattutto è un Dio che possiede tre peculiarità: è onnisciente, onnipotente e buono. Sa tutto: nulla gli è sconosciuto. Può tutto: nessuna azione è impossibile per lui. È amorevole: desidera il bene di tutte le proprie creature. Ebbene, questo Dio non esiste. E ciò si può dimostrare.

La dimostrazione si fonda sulla constatazione fattuale e indiscutibile che innumerevoli esseri senzienti privi di alcuna colpa soffrono dolori atroci per cause naturali. Dolori che Dio potrebbe eliminare. Eppure non lo fa. Non può o non vuole? Se non può, non è onnipotente. Se non vuole, non è buono. Ergo, per una logica lapalissiana, un Dio con quelle caratteristiche non può esistere.

Il tentativo di salvare capra (il Dio onnisciente, onnipotente e buono) e cavoli (la sofferenza innocente) prende il nome di teodicea, da theos (Dio) e dike (giustizia). Di teodicee ne sono state proposte tante. Tutte falliscono miserrimamente di fronte a una domanda: per quale motivo Dio lascia agonizzare un bambino fra dolori lancinanti prima della morte? Ricorda: questa è la domanda da porre a chi crede nel Dio abramitico. Il credente cercherà di rifilarti di tutto: il peccato originale, il sacrificio di Cristo, il Male come assenza di Bene, il Male come necessità per un Bene superiore. E tu gli potrai demolire ognuna di queste cazzate. Alla fine – qualcuno, sapendo che comunque finirà così, nemmeno ci prova e parte da lì – il credente si trincererà dietro la sua (presunta) giustificazione ultima: il Mistero della fede. Si finisce sempre in quel modo, in una delle sue molteplici forme: le imperscrutabili ragioni di Dio, la finitezza delle capacità di comprensione umana, il quadro generale inaccessibile. Girala come vuoi, quello è: un mistero. Il Mistero della fede, appunto. Ovvero: è palesemente una stronzata illogica, assurda, demenziale, ma bisogna crederci lo stesso. Noi, com’è ovvio, non ci crediamo.

Non ci crediamo e concludiamo, come la razionalità e la logica esigono, che quel Dio lì non esiste perché non può esistere. Sicché al Dio dei filosofi applichiamo l’ateismo debole – non pensiamo che esista, in assenza di una prova a favore – e al Dio abramitico l’ateismo forte – pensiamo, anzi sappiamo che non esiste per la prova della sofferenza innocente – o, volendo quantificare la nostra posizione sulla scala di Dawkins, diamo 6 al Dio dei filosofi e un bel 7 pieno al Dio abramitico.

Nello zoo dei bigotti, chi pretende che la fede in Dio sia razionale tutto ciò lo sa benissimo. È consapevole di avere la coda di paglia sul proprio Dio. Questo è il motivo per cui ne parla pochissimo: sa di non avere scampo di fronte alla teodicea. Perciò sta lì a menarla soltanto sul Dio filosofico e sulle sue presunte prove, sulle quali crede di avere spazio di manovra razionale, e pensa così di poter mettere in difficoltà gli atei. Noi però non dobbiamo accettare il confronto su questo piano. Del Dio filosofico si discute solo con i deisti onesti. Con il bigotto abramitico invece si deve discutere del suo Dio, quello in cui lui crede davvero, cioè il Dio che, pur potendo – o no? – impedirlo, non vuole – o sì? – salvare i bambini da una brutta morte e li lascia crepare male. Poi, volendo infierire, si possono tirar fuori dal pattume intellettuale altre minchiate, come la transustanziazione, la verginità di Maria e tutto il resto. Per dirla in modo raffinato: bisogna ficcare il naso del bigotto nella merda delle sue vere superstizioni. Altro che Gödel e Kalam e fine tuning di ‘stocazzo.

Choam Goldberg

(Foto: Pepita Milmore Memorial Fund)


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