Come un innamoramento?

I credenti affermano di «sentire» l’esistenza di Dio. E vabbe’: diamogliela per buona. Se però è un Dio ben preciso, «sentire» non basta.


Che cos’è la fede? La dico in modo semplice: la fede consiste nell’atto di credere che qualcosa sia vero anche senza averne le prove. Infatti, se ci fossero le prove, non sarebbe fede bensì conoscenza. Per esempio, io non ho fede nel fatto che la Terra ruota intorno al Sole e non viceversa: io so che è così. Lo so perché conosco tutti gli argomenti a favore del modello eliocentrico. Non c’è niente da credere.

Una conoscenza può essere modificata di fronte a nuove prove e nuovi argomenti. La critica sistematica e costante fa parte del processo di indagine razionale della realtà. E dalla critica può emergere che le teorie e i modelli dominanti sono sbagliati o quanto meno imprecisi, imperfetti, incompleti e quindi vanno sostituiti con altri. La conoscenza cambia nel tempo.

La fede invece non cambia proprio perché è una credenza che prescinde dalle prove. Non c’è dimostrazione o argomento capace di smuovere la fede. La fede è dogmatica per definizione: chi crede crede perché sì, perché è così e basta. Può sostenere che la sua fede si fonda su una Tradizione, su un Libro sacro, su un Magistero di qualche tipo, ma questo non muta la sostanza. Difatti rimane aperta la questione: perché quella Tradizione, quel Libro sacro, quel Magistero e non altri? E il credente può rispondere solo: «Perché sì». (Di fatto noi sappiamo che il perché è semplice: è nato in una cultura dove si insegna che la religione giusta è quella lì e lui si è sempre adeguato. Ma questa è un’altra storia.)

Mi è capitato una volta di chiedere a un astrofisico cristiano quale fosse la temperatura nel nucleo del Sole. «16 milioni di gradi», mi ha risposto. Poi gli ho domandato se, in linea di principio, ci fosse qualcosa che avrei potuto mostrargli per fargli cambiare la sua risposta. «Certo», è stata la sua risposta. Subito dopo gli ho chiesto se la resurrezione di Cristo fosse un evento storico reale. «Assolutamente sì», ha replicato. Da ultimo gli ho domandato se, in linea di principio, ci fosse qualcosa che avrei potuto mostrargli per fargli cambiare la sua risposta. «No», è stata la sua conclusione. Vedi? La differenza fra la conoscenza e la fede sta tutta qui.

Insomma la fede non è una giustificazione di una credenza – non si può rispondere «Ci credo perché ho fede» – bensì l’ammissione che non esiste alcuna giustificazione razionale. Se una giustificazione ci fosse, la fede sarebbe inutile. Siccome la giustificazione non c’è, allora la fede è banalmente un’ammissione di irrazionalità.

Alcuni credenti però fanno un discorso diverso. Secondo loro la fede non è una conoscenza ma non è nemmeno una credenza: la fede è un’esperienza. Ma un’esperienza in che senso? Nel senso di una sensazione interiore, una percezione di verità. Sensazione e percezione ineffabili e incomunicabili, perché le parole non sono sufficienti per descriverle.

Fanno sempre il paragone con l’innamoramento: quando ci si innamora di qualcuno, lo si percepisce come speciale e straordinario, ma non si sa spiegare perché. Ogni tentativo di argomentare si scontra con l’inefficacia della parole, perché non riesce mai a cogliere la completezza dell’esperienza interiore. Essere innamorati di una certa persona è un’esperienza che si può solo fare, altrimenti non la si capisce. La fede è una cosa simile: il credente «sente» che il suo Dio esiste.

Come possiamo rispondere noi atei a questo pseudoargomento? In tre modi.

Per cominciare, l’esperienza interiore non garantisce nulla sulla realtà: il mio innamoramento non rende una persona ipso facto straordinaria. È straordinaria in senso soggettivo, perché lo è per me. Ma non è affatto straordinaria in senso intersoggettivo, perché per chiunque non sia innamorato di lei – ovvero la stragrande maggioranza di tutti gli altri – è una persona comune, mediocre e banale come qualunque altra, con molti pregi ma anche molti difetti. Di sicuro per tutti tranne me quella persona non ha niente di eccezionale. Allora è o non è intrinsecamente meravigliosa? Ovvio: non lo è.

Infatti, in secondo luogo, noi vogliamo conoscere la realtà come è, non come noi crediamo che sia. Esiste un universo fuori dalla mia mente e io voglio capire com’è fatto. Specie se il mio giudizio ha la pretesa di avere un valore intersoggettivo. Mi spiego… Se io mi innamoro, mi basta sentire che quella persona è eccezionale. Mi basta per condividere con lei le mie esperienze di vita e i miei progetti esistenziali. Bada bene: le mie esperienze e i miei progetti. Solo i miei. Nel caso di un problema filosofico o scientifico invece punto a una conoscenza condivisa con tutti gli altri esseri umani. Quella conoscenza ha conseguenze per tutti, non solo per me. Dunque «Lo sento» è una risposta senza alcun valore per una conoscenza da condividere e quindi universale.

In terzo luogo, di che cosa stiamo parlando esattamente? Perché non si tratta soltanto della percezione interiore dell’esistenza di un’entità trascendente. «Io sento che Dio esiste» mi può anche stare bene. Io non nego l’esperienza interiore del credente. Nego semmai che quell’esperienza dimostri l’esistenza di Dio. Mi sembra piuttosto una condizione psicologica patologica o quanto meno anomala. Però ci sta, va bene. Tuttavia di solito il credente «sente» l’esistenza di un Dio ben specifico, con caratteristiche ben specifiche, spesso corrispondenti a dei fatti. E i fatti non si «sentono»: i fatti si conoscono.

Prendiamo il cristianesimo. Il cristiano che «sente» l’esistenza del Dio cristiano è convinto che il suo Dio si sia incarnato in un essere umano, sia morto e infine sia risorto. La resurrezione di Cristo è, per il cristiano, un evento storico. Questo evento si è verificato davvero oppure è solo una leggenda? Per capirlo dobbiamo studiare e soppesare le testimonianze delle fonti e valutare la verosimiglianza scientifica dell’evento. Dopodiché decideremo quale tesi è più convincente e, fino a prova contraria, ossia fino alla comparsa di nuove fonti, sapremo che cosa è accaduto nei fatti. Per farla breve: sulla realtà degli eventi non c’è nulla da «sentire».

Perciò, quando il cristiano afferma che «sente» l’esistenza del suo Dio, che cosa intende? Solo la percezione astratta di un’entità trascendente? Allora è un semplice deista. Oppure «sente» che Cristo è morto e risorto? Ma come fa? Come fa a «sentire» un fatto?

Non fa, appunto. Ancora una volta, quando discutiamo con i credenti dobbiamo tirarli giù dalla loro divinità astratta e riportarli alle loro credenze reali, cioè alle loro superstizioni. Anche quando pretendono che la loro fede sia come un innamoramento.

Choam Goldberg


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