Il Male e il minimalismo filosofico

Non è finita finché non è finita.


No, non è finita. La discussione sul Male, iniziata con l’articolo sulla teodicea paracula, è ancora aperta. Ora tocca a Cristian Arcidiacono esporre il proprio pensiero.


Prima premessa: da ateo, leggendo l’articolo di Adriano Virgili, ho trovato alcuni aspetti interessanti che intendo analizzare. Sono un follower del blog e del canale YouTube de L’Eterno Assente, ma non sono qui in quanto suo avvocato, bensì solo per esporre le mie riflessioni. Non voglio necessariamente aprire un dibattito. Non mi aspetto necessariamente una risposta da parte di Adriano Virgili. L’importante per me è non essere considerato qualcuno che desidera lo scontro a tutti i costi.

Seconda premessa: ho seguito solo parzialmente la diatriba tra Choam Goldberg e Adriano Virgili e non ho letto il libro dal quale è partita. Quindi si tenga conto di questo: io mi baso soltanto sull’articolo di Virgili.

Terza e ultima premessa: la mia risposta ad Adriano Virgili vorrebbe essere completa ma non lo è. Infatti mi sono reso conto che vengono discussi tanti (troppi!) temi e non riesco a sviscerarli tutti. Per cui le mie critiche sono indirizzate solo a specifici punti delle sue argomentazioni.

La dissoluzione tomista: l’errore categoriale

Adriano Virgili chiarisce come il tentativo tomista di spiegare il Male non sia corrispondente a una teodicea. Dunque parlare di teodicea in riferimento alle argomentazioni dell’Aquinate è proprio erroneo (1). Tommaso non difende Dio, ma mette in dubbio l’idea stessa di difesa o di attacco nei confronti di Dio. Attaccare o difendere Dio, portarlo metaforicamente in un tribunale, significa giudicarlo erroneamente con le categorie umane. Giudicare Dio attraverso le categorie umane è un errore poiché consiste nel formulare giudizi attribuendo dei predicati che non possono essergli attribuiti. Un esempio è il colore della speranza: l’associazione fra due concetti che fra loro non hanno niente a che fare.

Intendere Dio come agente morale consiste proprio in questo tipo di errore, è un mix tra un [predicato 1] e un [soggetto A] a cui però il [predicato 1] non può essere attribuito. Questo perché Dio è

l’Essere Stesso Sussistente […] non appartiene alla categoria degli enti […] è la condizione di possibilità di ogni ente e di ogni categoria […] nulla può essere aggiunto al Suo essere per specificarlo […],

e questo ci porta a eliminare l’idea di un Dio agente morale (2).

Dunque in che senso Dio è buono? Dio è buono non come un uomo giusto, ma in quanto egli corrisponde all’Essere e quindi, siccome il Bene è un trascendentale, egli è anche il Bene stesso. Egli non segue la Bontà, bensì è la Bontà (3).

Che cosa si può rispondere?

(1) Sulla questione dell’uso della parola teodicea, ritengo corretta la critica di Virgili. Certo, usarla in relazione alle argomentazioni di Tommaso non è un errore madornale, dato che si tratta comunque di un tentativo di spiegare razionalmente la presenza del Male nel mondo. Però sì, indubbiamente è improprio come termine, dato che l’impostazione della teodicea – data originariamente da Leibniz – è molto diversa dall’approccio al Male che l’Aquinate decide di adottare. Tuttavia – anche se probabilmente Virgili ne è consapevole – questa precisazione non è una vera critica alle idee esposte da Choam nel suo articolo, dato che si tratta di una mera questione terminologica che nulla ha a che fare con le argomentazioni.

(1.1) Di passaggio, mi pongo un paio di domande sugli apologeti che, leggendo l’articolo di Adriano Virgili, nei commenti hanno applaudito con grande giubilo, soddisfatti che finalmente qualcuno abbia smentito con la razionalità gli atei.

Anzitutto si sono resi conto della grande differenza tra le loro tesi e quella che emerge dal libro e dall’articolo di Virgili? Ricordo che proprio quegli apologeti hanno sempre esplicitamente elaborato teodicee, a differenza di Virgili, il quale dichiara che il suo tentativo di spiegare il Male non è una teodicea.

Inoltre si rendono conto che questa magistrale risoluzione del problema del Male, che loro lodano, ammette che Dio è buono anche se non vuole intervenire di fronte a una bambina che viene scuoiata viva? «Non vult», ammette Virgili. Loro avrebbero il coraggio di ammettere lo stesso?

Solo questo: due semplici domande. Se gli apologeti vogliono rispondere possono farlo, anche se probabilmente non lo faranno: la questione è molto scomoda.

(2) Su Dio in quanto non agente morale ci sono diversi dettagli da discutere.

Possiamo percorrere due strade differenti:

(a.) accettare la premessa posta dal tomismo e quindi accettare Dio come ente che sfugge alle
nostre classificazioni,

(b.) rifiutare la metafisica dell’Aquinate e arrivare a tutt’altre conclusioni.

Se percorriamo la prima via, è logicamente impossibile concludere il contrario di quanto viene affermato da Adriano Virgili. Non c’è scampo: se Dio non è classificabile con le nostre categorie, allora non possiamo giudicarlo come buono o cattivo seguendo il nostro senso umano, né possiamo giudicarlo come agente morale.

Se percorriamo la seconda via e quindi rifiutiamo l’impostazione di Tommaso, il discorso cambia direzione, e anche parecchio. E sì, ci sono ottime ragioni per rifiutare questa prospettiva, cadendo la quale cade l’intera costruzione filosofica proposta dall’articolo (e dal libro) di Adriano Virgili.

(2.1) Il primo punto che fa emergere una criticità in questa definizione di Dio è il predicato di amorevolezza, inteso come il desiderio di Dio di volere il Bene delle proprie creature nel mondo ultraterreno. Questo predicato, se si è cattolici, lo si deve inevitabilmente accettare per necessità dottrinali e, accettando questo punto di partenza, inevitabilmente la conclusione a cui si giunge è diversa da quella da enunciata da Adriano Virgili.

Andiamo per punti, partendo proprio dall’amorevolezza, cioè dal Bene che Dio vuole per le proprie creature secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica.

1. Dio, infinitamente perfetto e beato in se stesso, per un disegno di pura bontà, ha liberamente creato l’uomo per renderlo partecipe della sua vita beata. Per questo, in ogni tempo e in ogni luogo, egli è vicino all’uomo. Lo chiama e lo aiuta a cercarlo, a conoscerlo e ad amarlo con tutte le forze. Convoca tutti gli uomini, che il peccato ha disperso, nell’unità della sua famiglia, la Chiesa. Per fare ciò, nella pienezza dei tempi ha mandato il Figlio suo come Redentore e Salvatore. In lui e mediante lui, Dio chiama gli uomini a diventare, nello Spirito Santo, suoi figli adottivi e perciò eredi della sua vita beata.

54. «Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo, offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé. Inoltre, volendo aprire la via della salvezza celeste, fin dal principio manifestò se stesso ai progenitori». Li ha invitati ad una intima comunione con sé, rivestendoli di uno splendore di grazia e di giustizia.

55. Questa rivelazione non è stata interrotta dal peccato dei nostri progenitori. Dio, in realtà, «dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione, li risollevò nella speranza della salvezza ed ebbe costante cura del genere umano, per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene». «Quando, per la sua disobbedienza, l’uomo perse la tua amicizia, tu non l’hai abbandonato in potere della morte. […] Molte volte hai offerto agli uomini la tua alleanza».

107. I libri ispirati insegnano la verità. «Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, si deve dichiarare, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle Sacre Lettere».

142. Con la sua rivelazione, «Dio invisibile nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé». La risposta adeguata a questo invito è la fede.

Da questi passi del Catechismo, insieme a molti altri, viene fuori l’idea di un Dio che vuole la salvezza degli esseri umani nel paradiso, li ama e desidera la propria unione con loro. Si tratta di un Dio che vuole gli umani salvi perché prova amore per loro.

Anche se eliminiamo l’idea di bontà di Dio intesa come suo desiderio che gli umani stiano bene nel mondo terreno, rimane dunque l’idea di amorevolezza, intesa come sua volontà di salvare gli umani nel mondo ultraterreno.

Un Dio del genere emerge anche dai diversi passi del Nuovo Testamento citati da R. nel suo articolo nel blog de L’Eterno Assente, articolo nel quale affiora un ripensamento della bontà divina simile a quello di Adriano Virgili.

Ma la misericordia di Dio è immensa, e grande è l’amore che egli ha manifestato verso di noi. Ricordate, è per grazia di Dio che siete stati salvati: infatti, a causa dei nostri peccati, noi eravamo senza vita, ed egli ci ha fatti rivivere insieme con Cristo.
– Efesini 2,4-5

Così, egli è stato buono verso di noi — per mezzo di Gesù Cristo — e così ha voluto mostrare anche a quelli che verranno, quanto ricca e generosa è la sua grazia.
– Efesini 2,7

O forse agisci così, perché disprezzi la grande bontà, la tolleranza e la pazienza di Dio? Ma non sai che Dio usa la sua bontà per spingerti a cambiare vita?
– Romani 2,4

Cristo invece è morto per noi, quando eravamo ancora peccatori: questa è la prova che Dio ci ama.
– Romani 5,8

Ma ecco che Dio nostro Salvatore ci ha rivelato la sua bontà e il suo amore per gli uomini. Noi non abbiamo fatto nulla che potesse piacere a lui, ma egli ci ha salvati perché ha avuto pietà di noi. Ci ha salvati nel battesimo mediante lo Spirito Santo che fa rinascere e ci dà nuova vita.
– Tito 3,4-5

Voi invece amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperare di ricevere in cambio: allora la vostra ricompensa sarà grande: sarete veramente figli di Dio che è buono anche verso gli ingrati e i cattivi.
– Luca 6,35

Bisogna poi aggiungere un altro dettaglio essenziale, ovvero la caratteristica divina dell’onnipotenza. Questo significa che Dio vuole la salvezza delle creature e, in quanto onnipotente, può garantirla. Attenzione: non dare la salvezza con certezza, bensì intervenire per garantirla il più possibile.

Questo genera tre problematiche.

(a.) C’è una contraddizione evidente. Infatti Dio vuole la salvezza delle proprie creature e può garantirla, tuttavia non la garantisce: il Male morale esiste eccome e allontana dalla salvezza, anche se Dio, essendo onnipotente, potrebbe intervenire attivamente per limitarlo il più possibile. Infatti potrebbe fare molto di più per palesarsi e convincere le creature a non compiere il Male. Si ritorna quindi alla solita domanda: Dio non può o non vuole? In questo caso diventa: Dio non può o non vuole evitare la dannazione degli esseri umani prevenendone il Male morale? Le risposte possibili sono le solite due, con i soliti problemi: se non può non è onnipotente, se non vuole non è amorevole. In entrambi i casi si cade in una contraddizione.

(b.) Se ammettiamo che Dio vuole la salvezza ed è onnipotente, allora non possiamo negare che Dio è un agente morale, in quanto il desiderio della salvezza e la proprietà dell’onnipotenza implicano necessariamente l’azione atta a garantire la salvezza, nata dal suo desiderio (la salvezza delle creature) e guidata dal suo mezzo (l’onnipotenza). Se il [soggetto A] desidera l'[effetto 1] e può ottenere l'[effetto 1], allora lo ottiene necessariamente. Se il [soggetto A] non ottiene l'[effetto 1], allora o non lo desidera o non lo può ottenere. Che poi Dio non agisca è un altro conto. Sta di fatto che, se consideriamo le sue caratteristiche, ne ricaviamo una necessità: l’azione atta alla salvezza. Il fatto che Dio non rispetti questa necessità non è altro che un’ulteriore contraddizione delle sue azioni rispetto alla sua definizione. È importante sottolineare il fatto che i suoi predicati (onnipotenza e desiderio di salvezza) implicano necessariamente l’azione e che dunque Dio deve necessariamente essere un agente morale perché deve agire per garantire la salvezza.

(c.) Se Dio desidera la salvezza delle creature e può garantirla mediante la propria onnipotenza, allora la creazione di un mondo in cui la salvezza è certamente garantita è possibile o perfino necessaria. Da questo segue che interrogarci sulla questione non ci porta a un errore categoriale, in quanto i predicati di amorevolezza (intesa come desiderio di salvezza) e di onnipotenza implicano quanto meno la possibilità o addirittura, come argomentato in (a.) e in (b.), la necessità del tentativo di eliminazione del Male morale da parte di Dio, ossia scenari perfettamente in linea con i suoi attributi.

(2.1.1) I tre punti possono essere riformulati.

(a.)
Premesse: (P1) se Dio vuole salvare le proprie creature e può garantirne la salvezza, allora Dio garantisce la salvezza delle proprie creature; (P2) Dio vuole salvare le proprie creature; (P3) Dio può garantire la salvezza delle proprie creature; (P4) Dio non garantisce la salvezza delle proprie creature.
Conclusioni:(P2) + (P3) -> (C1) Dio vuole salvare le proprie creature e può garantirne la salvezza;(P1) + (C1) -> (C2) Dio garantisce la salvezza delle proprie creature.
Contraddizione: c’è una contraddizione tra (P4) e (C2); infatti da un lato i predicati di Dio esposti in (P1-3) e in (C1) ci portano alla necessità che Dio garantisca la salvezza delle proprie creature, ovvero (C2), ma dall’altro lato abbiamo che non la garantisce in (P4).

(b.)
Se (C2) è vera, allora dalle caratteristiche di Dio segue che egli è un agente morale.

(c.)
Premesse: (P5) se i predicati di Dio rendono necessaria la sua azione, allora parlare della sua azione in termini morali non è un atto extra-categoriale; (P6) i predicati di Dio rendono necessaria la sua azione.
Conclusione: (C3) parlare dell’azione di Dio in termini morali non è un atto extra-categoriale.

(2.1.2) Riguardo ad (a.) possono nascere diverse obiezioni. Nessuna funziona, ma vale la pena concentrarsi sulle due principali e più frequenti.

(d.) Dio ci lascia il libero arbitrio.

(e.) Bisogna accettare il Mistero della fede. Non conosciamo i piani di Dio.

Come rispondere?

(d.) La questione del libero arbitrio è molto ampia e può essere smontata in diversi modi.

– Un primo piano è quello dell’intervento divino. Abbiamo concluso che Dio non solo può, ma deve intervenire. Ebbene non solo questo è necessario se consideriamo i predicati divini, ma è anche compatibile con il libero arbitrio.
Dio potrebbe cercare di dialogare, anche spesso, con ogni individuo che commetta un Male morale o che sia predisposto, per cercare di persuaderlo. Non lo obbliga: semplicemente gli parla favorendo molto di più la sua salvezza, palesandosi nella propria Verità e mostrando chiaramente il Bene e il Male.
Dio potrebbe, con il proprio potere, migliorare le condizioni di esistenza degli individui, in questa maniera mettendo tutti in condizioni di vita ottimali che favoriscano il Bene. Oggi sappiamo che il comportamento umano è molto influenzato da fattori ambientali. Anche qui nessun obbligo: solo un intervento fuori dall’arbitrio umano che cambi le condizioni di partenza, le migliori e lasci agli esseri umani la libertà di scegliere.
Dio potrebbe rendersi continuamente manifesto. Pure questo è in grado di farlo, e gli consentirebbe di portare maggiore salvezza guidando gli umani direttamente, quindi non ha motivo per non farlo. Se non un motivo misterioso.

– Un secondo piano è quello che concepisce un Dio che non interviene direttamente sugli eventi poiché è extratemporale e guida il mondo con la propria sola Provvidenza. Al di là del fatto che questo è contraddittorio rispetto alle Scritture (v. 2.2), possiamo comunque trovare delle contraddizioni. Anzi la situazione peggiora pure.
Intanto si può dire che Dio è onnisciente, tralasciando però la contraddizione tra onniscienza e libero arbitrio, sebbene sia una contraddizione vera. Possiamo comunque dire che Dio sa tutto, per cui creando l'[essere umano A] sa già che egli finirà all’inferno. Potrebbe benissimo non crearlo per evitargli la pena eterna. Se invece sceglie comunque di creare l'[essere umano A] per garantirne il libero arbitrio, allora Dio ritiene il libero arbitrio più importante della protezione dalla sofferenza atroce ed eterna di qualcuno che lui sa già essere destinato all’inferno. Una contraddizione vivente. E soprattutto: sarebbe questo un desiderio di salvezza per le proprie creature?
Non solo: la determinazione degli eventi dipende dalla specifica Provvidenza divina extratemporale. Questo significa che Dio può indirizzare gli eventi umani verso ciò che desidera. Se Dio è onnipotente e desidera la salvezza, può semplicemente creare un mondo in cui c’è libertà, nessun essere umano pecca di Male morale perché ogni umano ha una natura diversa che lo porta a non peccare.
Insomma, si aprono vari problemi. Un altro dei quali è il grado di libertà. Infatti la libertà non è certo un monolite. Un individuo nato in un ambiente che predispone alla criminalità non è libero quanto me, che sono cresciuto in un ambiente civile: per lui è molto più difficile evitare di compiere crimini. Tuttavia Dio sceglie di crearlo con quel destino che lo predispone molto di più a peccare, creando una grande disuguaglianza tra lui e me.

(e.) La questione del Mistero della fede, molto reiterata in salse diverse e con parole diverse, non è una questione a cui sono razionalmente tenuto a rispondere. Essa non dà alcuna argomentazione reale, bensì corrisponde a un semplice e sonoro «Boh! Non lo so, però mi fido».

(2.2) Concentriamoci ora sui passi biblici. Infatti sì, ci sono dei passi biblici che mostrano che l’idea di Dio come agente morale nel mondo è prevista nella dottrina.

Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!
– Matteo 7, 7-11

In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
– Matteo 18, 19-20

Per questo vi dico: tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà.
– Marco 11, 24

Ora, anche sorvolando sui paradossi che nascono dalla preghiera, la cosa importante che emerge è un’idea della divinità che implica un intervento nel mondo. Eccome se lo implica.

(2.2.1) Viene fuori, a partire dalle Scritture, un’ulteriore contraddizione. E riguarda proprio lui, Gesù Cristo.

Cristo è il personaggio biblico più importante in assoluto e rappresenta più di tutti quel momento della Storia in cui Dio si è fatto agente morale. Si è fatto uomo e sulla Terra ha compiuto delle azioni precise, moralmente valutabili. Nessun buon cristiano si sognerebbe di concepire le azioni di Gesù come amorali.

Gesù è Dio che, sceso in Terra, fa cose, compie azioni e diventa addirittura un vero e proprio punto di riferimento morale. Cristo è proprio la bussola morale dei cristiani.

Le opzioni sono di nuovo due:

(a.) Dio non è un agente morale, quindi nemmeno Gesù è un agente morale, e allora si perde il fulcro del cristianesimo, oppure

(b.) Gesù è un agente morale, allora anche Dio è un agente morale, quindi cade la difesa di Dio come non agente morale.

Tertium non datur.

Al di là dell’assenza di ulteriori opzioni, è chiaro che nessuna delle due ci porta a una conclusione favorevole all’interpretazione religiosa del Male che stiamo analizzando. Nel primo caso cade l’intero cristianesimo, nel secondo caso cade il tomismo di Adriano Virgili.

(2.2.2) In un’ultima analisi nelle Scritture possiamo trovare un altro punto che fa venire a galla l’idea di un Dio agente morale. Infatti da esse emerge un fatto: Dio e gli esseri umani, dopo la ribellione originaria, vivono in un rapporto profondamente imperfetto, ma Dio nel corso della Storia riporterà gradualmente alla perfezione il loro rapporto.

Dio insomma è proprio visto come un agente che deve ripristinare il rapporto con l’umanità. Inizialmente lo fa attraverso Gesù Cristo, ma poi dovrà farlo anche in altre maniere.

Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:
«Ecco la tenda di Dio con gli uomini!
Egli abiterà con loro
ed essi saranno suoi popoli
ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.
E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi
e non vi sarà più la morte
né lutto né lamento né affanno,
perché le cose di prima sono passate».
– Apocalisse 21,3-4

(2.3) Dopo aver appurato che (1) se ridefiniamo la bontà come fa Adriano Virgili rimane comunque una contraddizione in virtù della proprietà dell’amorevolezza, che (2) Dio in virtù delle proprie caratteristiche deve essere un agente morale anche se togliamo la bontà, che (3) la necessità dell’azione divina rende pertinenti i discorsi sul suo agire morale e non degli errori categoriali, che (4) né il libero arbitrio né il Mistero della fede sono una buona difesa, e che (5) l’idea di agente morale è anche prevista dal testo sacro, procediamo oltre.

La descrizione che Virgili dà di Dio come agente non morale mi lascia particolarmente perplesso: non riesco a capire come le caratteristiche da lui enunciate implichino che Dio non sia un agente morale.

(…) secondo la metafisica tomista applicare a Dio il concetto di “agente morale” (nel senso in cui lo applichiamo agli esseri umani) è precisamente un errore di questo tipo. Perché? Perché Dio non è un ente tra tanti, nemmeno il più grande, il più potente e il più buono. Dio è Ipsum Esse Subsistens, l’Essere Stesso Sussistente. Egli non appartiene alla categoria degli enti; Egli è la condizione di possibilità di ogni ente e di ogni categoria. Come insegna l’Aquinate, «Dio non è in alcun genere» (Summa Theologiae, I, q. 3, a. 5), perché nulla può essere aggiunto al Suo essere per specificarlo. Egli è l’Atto Puro, l’infinita pienezza della realtà, senza alcuna mescolanza di potenza o limitazione.
Di conseguenza, quando affermiamo «Dio è buono», non stiamo attribuendo a Dio una virtù morale che Egli possiede, come un uomo possiede la virtù della giustizia. Stiamo affermando qualcosa di infinitamente più radicale. Poiché il bene, per la filosofia classica, è un «trascendentale» – una proprietà dell’essere in quanto essere (bonum et ens convertuntur) – e poiché Dio è l’Essere Stesso, ne consegue che Egli è la Bontà Stessa. Non è che Dio si conformi a uno standard di bontà; Egli è quello standard. La sua volontà non sceglie il bene, ma costituisce il bene.

Notiamo diverse motivazioni che portano Adriano Virgili a concludere che Dio non è un agente morale: Dio è l’Essere Stesso Sussistente, è la condizione di possibilità di ogni ente e categoria, nulla può essere aggiunto al suo Essere per specificarlo, il Bene è una sua proprietà poiché è una proprietà dell’Essere, egli è lo standard di Bontà.

Ma che cosa rende un [soggetto A] un agente morale? Anzitutto definiamo «agente» e «morale». Seguendo l’Oxford Languages, un agente è qualsiasi ente che si determini attraverso una data operazione o azione. Possiamo poi definire un agente morale come un ente che viene determinato moralmente dalle proprie azioni. Per esempio, se io uccido una persona innocente vengo determinato da questa mia azione, in senso morale, come una persona non buona. Io sono un soggetto e agisco, compio delle azioni che hanno degli effetti che in quanto tali possono essere moralmente giudicati come buoni o cattivi, e il mio compiere gesti buoni o cattivi mi determina moralmente.

Poste queste definizioni, chiediamoci che cosa possiamo definire come agente morale. Ebbene, è possibile usare questa espressione per descrivere qualunque soggetto agisca con consapevolezza di agire. Perché? Beh, semplicemente perché l’espressione in questione è descrittiva, ovvero banalmente serve a dire come stanno le cose. Se il [soggetto A] può compiere un’azione che può ottenere effetti positivi o negativi e che può fare del Male o del Bene al mondo, allora lo descrivo come agente morale, in quanto posso determinarlo moralmente a seconda delle azioni che compie, dicendo che o fa il Male o fa il Bene. Lo faccio come semplice descrizione del mondo che ho davanti ai miei occhi. Mi sembra un uso dell’espressione semplice, parsimonioso, descrittivo, efficace e rispettoso del suo significato.

Detto questo, Dio sarà anche l’Essere Stesso Sussistente, la condizione di possibilità di ogni ente e categoria, lo standard di Bontà et cetera, ma quindi? Nessuna di queste definizioni esclude che Dio sia un agente morale, ovvero un soggetto che ha possibilità di agire e coscienza di agire e che con il proprio agire provoca degli effetti giudicabili attraverso i concetti di Bene e di Male, cioè degli effetti che possono essere giudicati come buoni o cattivi. Sì, è un ente con tante caratteristiche peculiari, ma in che modo queste implicano che non sia un soggetto che viene determinato dalle proprie azioni? In che modo questo implica che non possa esserci un giudizio morale? Ci troviamo di fronte a un non sequitur, poiché non c’è niente in quelle caratteristiche da cui segue che Dio non possa essere giudicato moralmente.

(2.3.1) Riformuliamo in modo sintetico quanto abbiamo detto.
Premesse: (P1) se un ente agisce e provoca degli effetti giudicabili, allora attraverso un processo descrittivo possiamo definirlo un agente morale; (P2) Dio agisce; (P3) Dio provoca degli effetti giudicabili.
Conclusioni: (P2) + (P3) -> (C1) Dio agisce e provoca degli effetti giudicabili; (P1) + (C1)-> (C2) attraverso un processo descrittivo possiamo definire Dio un agente morale.

(3) Ho già risposto in (2.3), dove ho mostrato che l’idea di un Dio che è la Bontà stessa non esclude certo che egli sia un agente morale. Inoltre il fatto che Dio sia la Bontà non esclude altri problemi, in particolare i passi biblici che evidenziano l’idea di un’agenzia morale (2.2), e l’impossibilità di concepire Dio fuori dal suo essere agente morale in virtù della sua amorevolezza (2.1).

Come si cambia il senso delle parole per fuggire dai problemi

Dio non può andare fuori dalle nostre categorie morali per diverse ragioni. Possiamo giudicare le sue azioni attraverso la lente morale. Questo fatto però non è scontato: l’ho dovuto argomentare.
A partire da ciò, svisceriamo una questione ineludibile quando si disputa su Dio: la sua grandezza. Molto spesso infatti tendiamo a credere che l’infinitezza, l’assolutezza, l’onnipotenza e tutte le altre altisonanti proprietà portino Dio su un piano descrittivo totalmente diverso.

L’errore sta nel credere che ci sia una distanza abissale tra le nostre descrizioni e Dio, distanza che porta spesso i teologi, gli pseudoteologi, i non credenti devoti e gli apologeti a rifiutare categoricamente tante descrizioni per Dio, ponendolo su un piano che gli permette di sfuggire a molte critiche. Si tratta di un errore, poiché la sua sola grandezza non basta per porlo totalmente su un altro piano linguistico.

Partiamo dai fondamentali: a che cosa ci serve il linguaggio? A dire come stanno le cose. Uso il linguaggio nella filosofia per spiegare attraverso essa delle tesi metafisiche, quindi spiego come stanno le cose metafisicamente. Uso il linguaggio nella scienza per descrivere i fenomeni, quindi spiego come stanno le cose naturalmente. Uso il linguaggio nella poesia per descrivere sentimenti, fatti, storie, quindi spiego come stiano le cose nella psiche o nella realtà o in una finzione. Questa definizione di linguaggio certamente non è esaustiva. Per esempio il linguaggio serve anche per imporre imperativi o per sollevare interrogativi. Ma per il nostro scopo la definizione fornita basta e avanza: con il linguaggio vogliamo dire come stanno le cose, che cosa succede nella realtà. Ci basta sapere questo. Possiamo poi aggiungere che il linguaggio è fatto di parole, che esprimono soggetti, predicati, complementi et cetera. Le parole, messe insieme nel giusto modo, danno vita a frasi che spiegano come stanno le cose. Metto insieme il soggetto «Pierino» e il predicato «dorme» e ne ricavo la frase «Pierino dorme». Che cosa ho fatto? Ho preso due parole che indicano dei concetti e le ho messe insieme per sottolineare una determinazione della realtà. Determinazione che può essere vera se Pierino dorme oppure falsa se Pierino è sveglio, ma rimane pur sempre una determinazione. Siccome nel linguaggio dell’argomentazione servono chiarezza e comodità, le parole a propria volta devono avere un significato più univoco possibile: più una parola è chiara e poco ambigua, meglio è. Da questo consegue che, se una parola ha un significato chiaro e può essere usata ampiamente per tanti ambiti, è poco razionale estenderne il significato e complicarne i connotati. Se la [parola 1] descrive bene [A], [B], [C] e [D], non ha molto senso che io usi un significato diverso della [parola 1] per [C] e [D]. Usare la [parola 1] per descrivere caratteristiche diverse di [C] e [D] porta solo a confusione e incomprensioni. Per quelle caratteristiche sarà molto meglio usare la [parola 2]. La parsimonia spinge razionalmente a ridurre, a usare le parole con il significato meno fraintendibile possibile.

Ergo, se la Bontà intesa in senso umano descrive bene le questioni umane e quelle divine, come abbiamo visto, perché dovrei cambiare il significato di questo termine, intendendo la Bontà divina con un significato totalmente differente? Non c’è alcun motivo. Basta quel solo significato particolare per definire sia le azioni umane sia quelle del Dio abramitico. Lo stesso vale per tanti altri termini. Scegliere di cambiare piano linguistico solo perché Dio è infinito è semplicemente sbagliato, giacché è un’inutile complicazione semantica che ridefinisce il significato di Bontà, malgrado parlare di Bontà in senso umano per Dio andasse già benissimo, in virtù delle necessità linguistiche. In sintesi, il solo essere immateriale, infinito, onnipotente non rende certo necessario cambiare l’uso del linguaggio laddove è inutile farlo. Non solo non sta scritto da nessuna parte che dobbiamo cambiare linguaggio se un ente è così «grande», ma addirittura è deleterio da un punto di vista razionale.

Sul minimalismo filosofico

L’articolo di Adriano Virgili parte dal riconoscimento dell’esistenza di una realtà al di fuori del soggetto cosciente. Sebbene io non sia così filosoficamente lontano dal solipsismo, la riconosco pure io, perché anch’io sono realista. Pertanto sì, esiste eccome una realtà al di fuori di me.

Virgili procede poi con una dissertazione sull’assunto dell’esistenza della realtà esterna al soggetto cosciente in relazione al minimalismo filosofico.

Per chi se lo fosse perso: il minimalismo è la visione della realtà esposta da Choam in diversi suoi articoli, tra cui proprio quello sulla teodicea paracula, articolo a partire dal quale Virgili muove la propria critica a Choam. Questa prospettiva consiste in una concezione naturalista della realtà, che vede nel principio di parsimonia (quello elaborato soprattutto da Occam) un essenziale strumento che accompagna qualsiasi indagine sulla realtà. Che sia scientifica o filosofica.

In particolare Virgili afferma che il pensiero minimalista sulla realtà

(…) scambia il primo passo del viaggio per la destinazione finale. Affermare «la realtà esiste» è come, arrivati ai piedi di una montagna maestosa, dichiarare «la montagna è qui» e ritenere conclusa l’esplorazione. Il vero filosofo, il metafisico, è colui che, constatata la presenza della montagna, inizia la scalata. Egli non si accontenta di sapere che la realtà è; vuole sapere cos’è e come è possibile.

Ovvero accorgersi dell’esistenza della realtà è il primo passo, mica il punto di arrivo.

Tuttavia è sbagliato pensare che il minimalismo filosofico di cui tratta Choam sia un semplice fermarsi alla constatazione dell’esistenza della realtà. Il minimalismo filosofico si affida al principio di parsimonia di Occam, che impone di non fornire ulteriori spiegazioni oltre quelle strettamente necessarie. Qualunque altra spiegazione deve essere giustificata e argomentata. Il minimalista filosofico, di fronte a ogni nuovo ente o concetto, si chiede: «Perché dovrei pensare che esista? Ne ho davvero bisogno?». Se non c’è risposta, il minimalista filosofico ne fa a meno perché, appunto, non è strettamente necessario. E proprio in questa accoppiata di avverbio e aggettivo («strettamente necessario») sta il nocciolo della questione.

Il minimalista filosofico non pensa certo di fermarsi al fatto che la realtà esista. Egli indaga la realtà, ma si limita a descriverla solo sulla base delle evidenze che ottiene. Cioè appunto quei dati strettamente necessari che devono fornirci un limite entro il quale argomentare le nostre spiegazioni. Quindi il minimalista indaga, altroché se lo fa. Con una sola differenza rispetto al non minimalista: si pone un limite nel dare descrizioni del mondo, poiché oltre le evidenze di cui dispone non può dare altre spiegazioni. Questo modo di pensare non consiste nel constatare la sola esistenza della realtà, bensì nel constatarla e poi indagarne le caratteristiche. Poi certo il minimalista si ferma alla realtà naturale, ma la studia, prova interesse verso di essa.

Ora, perché il minimalista sceglie comunque di non andare oltre la Natura di cui egli stesso ha conoscenza? Perché, dopo aver concluso che esiste la realtà esterna e dopo averla studiata e indagata, si rende conto che essa può essere spiegata solo con i fenomeni naturali e non ha senso inserire nella raffigurazione del mondo reale ciò che va oltre il naturale. Non ha bisogno di ricorrere ad amici immaginari o a descrizioni metafisiche prive di utilità. Il naturalista preferisce piuttosto appellarsi alle leggi della Natura e a quelle descrizioni metafisiche che un’utilità ce l’hanno.

Questo è il minimalismo filosofico: nient’altro che la diretta conseguenza del razionalismo. Il filosofo minimalista nota che esiste la realtà e la esplora attraverso la Natura, dopo averla esplorata conclude che la Natura basta per spiegare la realtà. È giusto? È sbagliato? Non è questo il punto, per ora. Il punto è che il minimalismo non esclude l’esplorazione della montagna, ma anzi la include come parte integrante. Il minimalista vede la montagna, la esplora, la studia, la inserisce nel quadro più grande della geologia del pianeta, ma non si spinge oltre nelle proprie affermazioni perché più di quello non può dire. Non ha altri dati per dire di più. Qualunque altra affermazione sulla montagna sarebbe un atto di fede campato per aria, equivalente a qualsiasi altro atto di fede di segno opposto e altrettanto gratuito perché indimostrabile. Siccome porta al naturalismo, il minimalismo nell’indagine si affida solo alle scienze, quelle vere, quelle che funzionano, quelle che hanno un aggancio con la realtà naturale, e alla metafisica non inutile. Non certo alla fuffa teologica. Minimalismo non vuol dire spiegare il minimo possibile, bensì spiegare senza andare oltre ciò che è necessario.

Anche il minimalismo può essere rappresentato in modo sintetico con la logica.

Premesse: (P1) se la realtà esterna esiste, allora può essere indagata; (P2) la realtà esterna esiste; (P3) se è razionale spiegare la realtà con il rasoio di Occam, allora non si può andare oltre le spiegazioni naturalistiche; (P4) è razionale spiegare la realtà con il rasoio di Occam.
Conclusioni:(P1) + (P2) -> (C1) la realtà esterna può essere indagata;(P3) + (P4) -> (C2) non possiamo andare oltre le spiegazioni naturalistiche.

Se si vuole confutare il minimalismo filosofico, si deve partire anzitutto da questo schema essenziale. Ci sono vari modi per farlo, benché nessuno funzioni. Per esempio, si può mettere in dubbio (P3) e dimostrare perché si possa andare oltre le spiegazioni naturalistiche usando il rasoio di Occam. Oppure (P4), spiegando perché sia scorretto spiegare tutta la realtà con il rasoio di Occam. Tuttavia qualsiasi tentativo del genere io abbia avuto modo di leggere o ascoltare si è rivelato fallimentare.

Divenire, molteplicità, essenza, metafisica

Per difendere la metafisica tomista Adriano Virgili affronta il divenire e la molteplicità.

Un minimalista non esclude certo i discorsi metafisici. Anzi la metafisica del divenire e della molteplicità può e deve far parte del minimalismo filosofico, perché nasce inevitabilmente dall’osservazione della Natura e può finire lì: non c’è bisogno di arrivare all’esistenza di enti sovrannaturali. Basta la Natura per spiegare il divenire.

Il divenire non è un’ipotesi superflua, bensì una chiara evidenza del reale. Le cose divengono: compaiono, esistono, scompaiono. Se il divenire è fattuale, allora va incluso nell’analisi minimalista del reale. Perciò un minimalista non nega il divenire, lo accetta eccome! Lo stesso per la molteplicità: da minimalista, io accetto anche il discorso sull’essenza sviluppato da Adriano Virgili. Va bene così.

Il problema si presenta con la pretesa che un minimalista escluda questi discorsi metafisici. Se sono necessari non li esclude. Al massimo li rende diversi da quelli del tomismo: per esempio per un minimalista la nozione di essenza potrebbe essere inutile. Ma non li elimina a priori. Se li elimina non è un vero minimalista, perché esclude delle spiegazioni necessarie, che sono quelle metafisiche. Chi esclude il divenire dalla descrizione della realtà non è minimalista, perché non si limita al necessario bensì a meno del necessario.

Il problema del tomismo e dell’aristotelismo non sta nel fatto che parlino della sostanza, dell’essere, del divenire e della molteplicità. Quelli sono elementi fondamentali che vanno inclusi, e anzi queste filosofie sono state importanti nell’affermare la necessità della loro inclusione nella riflessione filosofica. Il problema è che poi si arriva a Dio o alla necessità della spiegazione metafisica del male. Tutte cose che sì, a differenza del divenire, sono inutili nella spiegazione del mondo. Il minimalismo filosofico le elimina perché si rende conto che non c’è bisogno di spiegare il Male – il Male esiste e basta ed è spiegabile attraverso la Natura – e non serve Dio per spiegare l’esistenza dell’universo.

La realtà è semplice, regolare e prevedibile

Adriano Virgili poi procede con l’analisi di un altro principio minimalista, ovvero che la realtà è semplice, regolare e prevedibile, assunto che lui definisce un equivoco. Tale equivoco consisterebbe nel pensare che il rasoio di Occam si applichi tanto allo studio epistemologico quanto a quello ontologico. Invece secondo Virgili esso è utile nell’indagine scientifica ma non decreta come la realtà debba essere in maniera aprioristica. La semplicità deve esserci nei modelli scientifici, non certo nella descrizione metafisica della realtà (1). La metafisica tomista cerca di dare un fondamento alla natura: se il minimalista accetta l’esistenza dell’universo e basta, il tomista cerca invece di spiegarlo. E lo fa analizzando la struttura degli enti, studiandone soprattutto due elementi, cioè la forma e la finalità (2).

1.    La Forma o Natura: Ogni sostanza materiale agisce in modo regolare e prevedibile perché possiede una forma sostanziale, un principio intrinseco che la costituisce in quel determinato tipo di cosa. È la forma della «quercia» che fa sì che una ghianda, se le condizioni lo permettono, si sviluppi in una quercia e non in un pino o in un gatto. È la «natura» dell’idrogeno che determina le sue proprietà chimiche e il suo modo di interagire con altri elementi. Le «leggi di natura» che la scienza scopre non sono delle regole imposte dall’esterno, ma la manifestazione dell’agire costante e specifico delle nature o forme delle cose.

2.    La Finalità: Questa azione ordinata non è casuale, ma diretta a un fine. Omne agens agit propter finem, «ogni agente agisce per un fine», è uno dei principi cardine della metafisica tomista. La ghianda agisce in vista del suo fine, che è la piena attuazione della sua forma di quercia. Ogni ente naturale tende intrinsecamente alla propria perfezione. Questo finalismo intrinseco (o teleologia) è ciò che rende l’universo un cosmo (un mondo ordinato) e non un caos. La scienza moderna, pur rifiutando spesso il linguaggio della finalità, la presuppone implicitamente ogni volta che ricerca leggi e costanti, perché la ricerca di una legge è la ricerca di un ordine finalizzato (3).

Virgili poi si spinge ancora oltre. Infatti, se gli enti non coscienti hanno un fine, allora devono essere diretti da un’Intelligenza ordinatrice. Gli enti sono la freccia precisa che necessita di un tiratore che la lanci attraverso un arco. La regolarità della natura affermata dal minimalismo è proprio l’indizio della presenza di Dio (4). Il minimalismo filosofico nella sua spiegazione semplice della realtà perde tanti dettagli, credendo di comprendere bene la realtà. La metafisica invece va al di là e coglie tutti i dettagli (5).

Come replicare sulla base del minimalismo filosofico?

(1) Il rasoio di Occam è un principio necessario anche in ontologia e in metafisica. Il motivo è presto detto: anche l’analisi metafisica deve mantenere la razionalità, e nel farlo è necessario che si basi su prove, indizi, fatti, evidenze, necessità. Nell’analizzare metafisicamente la realtà devo descrivere ciò che non posso evitare di descrivere e devo lasciar perdere ciò che nella mia descrizione della realtà non è corroborato da prove, fatti, evidenze, necessità. Solo da questo devono nascere le mie argomentazioni filosofiche.

La spiegazione è semplice: per il minimalista la realtà va descritta, anche metafisicamente, a partire dalle conoscenze che dalla realtà stessa otteniamo. Ottengo delle conoscenze, dopodiché le ordino nell’analisi del mondo a me esterno dando loro una spiegazione. Da questo segue il fatto che io debba basarmi solo sulle evidenze, sugli indizi e sulle necessità, perché solo da esse ottengo conoscenze per il mondo attraverso le quali posso poi darne una descrizione anche metafisica e non solo naturale. In sintesi, è necessario che ci sia una corrispondenza: i fatti e le necessità devono corrispondere alla descrizione del mondo.

Anche il tomista, quanto meno in parte, applica questo principio. Per esempio pensa che Dio esista non sulla base di un’ipotesi elaborata a caso, ma perché ci sarebbero degli indizi effettivi. Poi che le prove di Tommaso non funzionino è un altro conto: sta di fatto che sì, al fondamento della metafisica dell’Aquinate c’è un ente considerato necessario a partire da quelle che egli considera vie, cioè degli indizi (o delle vere e proprie prove) che portano a Dio.

La differenza con il pensiero di un minimalista sta nel pensare che quell’ente non sia veramente sostenuto da evidenze né da indizi o altro. Insomma ci sono zero prove dell’esistenza di Dio. Semmai tante, tantissime prove contrarie. Ergo nella visione (meta)fisica del minimalismo filosofico della realtà Dio è escluso: non serve proprio.

In sostanza sì, la semplicità deve esserci nella descrizione della realtà. Semplicità intesa, di nuovo, come la limitazione alle spiegazioni strettamente necessarie. Questo perché anche nello studio metafisico bisogna basarsi su prove, indizi e necessità, e non su spiegazioni formulate a caso. Il divenire è evidente, è provato, sperimentato, necessario, quindi non lo escludo. Dio è inutile, e allora certo che lo escludo.

(2) Che sia indispensabile dare un fondamento alla Natura fuori da essa è un principio totalmente arbitrario. Questo sì non necessario e dunque antieconomico nella descrizione della realtà. L’universo esiste, punto. E qui cito Choam, al quale Virgili risponde nel proprio articolo, che propone una buona risposta filosofica.

Choam parla spesso del passo indietro da compiere: invece di dire che a fondamento dell’universo c’è un Dio ontologicamente necessario, perché non usare una descrizione più economica, facendo appunto un passo indietro e dicendo che è l’universo a essere ontologicamente necessario? Questo basta. Il tomista cerca di spiegarne il fondamento con Dio? Va bene, che lo faccia: vengono fuori anche discorsi interessanti. Ma che l’universo meriti un fondamento che vada oltre sé stesso è un’assunzione arbitraria e antieconomica. Inoltre non è che il minimalista filosofico non spieghi l’universo. Anzi egli vuole capirlo, studiarlo, scandagliarlo. Semplicemente non crede sia necessario spiegarne il fondamento attraverso una realtà esterna, che sia fuori dall’universo stesso. In questo caso Dio.

Beninteso lo stesso vale anche per il tomista. Così come un minimalista spiega che l’universo può trovare in sé il proprio fondamento senza bisogno di spiegazioni ulteriori, il tomista spiega che Dio trova in sé il proprio fondamento senza bisogno di spiegazioni ulteriori. Ovvero l’atteggiamento che il tomista critica al minimalista il tomista stesso lo ripropone! Lo fa con Dio però, quando potrebbe benissimo farlo con l’universo.

Il minimalista trova il fondamento dell’universo nell’universo stesso e lo indaga, il tomista trova il fondamento di Dio in Dio stesso e lo indaga. Il procedimento è il medesimo. L’errore del tomista, che il minimalista non commette, è quello di aggiungere una spiegazione non necessaria e senza evidenze. Anzi con tantissime evidenze contrarie.

Perché dire che l’universo è ontologicamente necessario? È una banale spiegazione di quella che il teista definisce contingenza. Il teista spiega la contingenza con la necessità di Dio, il minimalista la spiega con la necessità dell’universo.

Perché l’universo e non Dio? Perché di Dio non ci sono evidenze, dell’universo sì. Noi sappiamo che l’universo esiste. La contingenza va spiegata, seguendo la parsimonia filosofica, a partire dal limite più grande di cui abbiamo conoscenza, cioè da quel maximum oltre il quale, fino a prova contraria, non si trova niente e da cui tutto il resto dipende.

Qual è questo maximum? Non è Dio, perché mancano le evidenze. Il maximum più grande di cui abbiamo conoscenza è proprio l’universo. Se ci fossero evidenze di un Dio creatore – e se non ci fossero evidenze contrarie – potremmo dire che c’è qualcosa che va oltre l’universo e da cui l’universo dipende, ma siccome non ci sono ci limitiamo, in maniera parsimoniosa, all’universo.
In sintesi, come si spiega la contingenza? La contingenza si spiega conferendo la necessità all’ente che, fino a prova contraria, è il maximum che da nient’altro dipende e da cui tutto dipende. Appena verrà fuori la dipendenza dell’universo da qualcos’altro, sposteremo la necessità su di esso.

(3) La definizione di Forma la ammetto solo in parte. Da realista, accetto la forma sostanziale dell’ente, ma non la prevedibilità. Di una ghianda siamo in grado di prevedere possibili sviluppi, ma ci sono fenomeni naturali nei quali la prevedibilità è soltanto statistica, per cui il singolo evento non è affatto prevedibile.

Accetto che ogni cosa, al di fuori delle nostre osservazioni, possieda una propria natura che implica determinate proprietà e determinati cambiamenti. Essi però non sono sempre prevedibili. Il tomismo, così dipendente da una visione determinista della realtà, fallisce quando si confronta per esempio – ed è solo un esempio – con le conoscenze acquisite dalla fisica moderna.

(4) Della finalità va rifiutato il suo preteso legame con le leggi naturali. Infatti le leggi naturali non esprimono il fine degli enti naturali. Le leggi naturali sono soltanto descrizioni – peraltro nemmeno definitive e assolutamente vere, poiché sempre rivedibili e sostituibili – del comportamento regolare dei fenomeni naturali.

D’altronde introdurre il concetto di «fine» serve al tomista proprio per lasciar intendere che, come nel caso delle finalità umane, dietro le leggi si nasconde un’Intelligenza con una volontà: un’altra pretesa superflua. Se la ghianda diventa quercia non significa che c’è qualcuno che lo vuole. Significa solo che un ente si è trasformato, punto. E noi possiamo descrivere – nel caso della ghianda anche prevedere – quella trasformazione attraverso le leggi fisiche, chimiche e biologiche. Nulla di più, nulla di meno.

Di nuovo il tomismo ci impone un’assunzione arbitraria, in questo caso la necessità di un’Intelligenza per un fenomeno spiegabile semplicemente attraverso la fisica, la chimica e la biologia, che descrivono un universo ontologicamente necessario, che esiste perché sì.
Invece di dire che Dio esiste perché sì e che ha creato l’universo e invece di introdurre mille altri elementi derivanti dalla sua volontà, io dico solo che l’universo esiste perché sì, e poi mi limito a descrivere con le sue leggi i fenomeni che osservo. Sono più parsimonioso.

(5) Il minimalismo non perde dettagli. Il minimalismo elimina i dettagli inutili, comprendendo la realtà unicamente sulla base delle evidenze e delle necessità.

Cristian Arcidiacono


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2 pensieri su “Il Male e il minimalismo filosofico

  1. Aiuto, Choam! Non ce l’ho fatta a leggere e interiorizzare, a capire ed elaborare, insomma a digerire mentalmente questa pletora di argomentazioni erudite. Mi sono fermato a un terzo.
    Eppure non sono un sempliciotto ignorante di filosofia, teologia e logica.
    Ripeto la richiesta di aiuto:
    “Choam! Puoi fare un sunto?”

    Sarà che sono una persona concreta che evita il superfluo, ma a me basta il tuo sintetico giudizio sulla teodicea e la sintesi dissacrante di Feuerbach sulla creazione di Dio.
    Altro che “rasoio di Occam”! Tu e Feurbach avete usato la ghigliottina. E il re/dio è nudo, anzi senza testa.

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