La sfida della teodicea affrontata da un credente baha’i.
Fra tutte le religioni abramitiche, la più presentabile e decente è la fede baha’i, un ramo scismatico – e per questo perseguitato – dell’islam sciita. In passato mi è capitato di avere a che fare con alcuni seguaci di Bahá’u’lláh e sempre ho incontrato persone aperte, tolleranti, civili, moderne e perfino razionali, a modo loro e compatibilmente con la credenza nel Dio abramitico. Cioè poco, però gli altri monoteismi stanno messe molto peggio. Ora anche Samuel, un fedele baha’i, mi ha scritto per proporre la propria risposta alla sfida della teodicea.
Nell’articolo di presentazione della sfida, preciso che non verrà accettata come risposta il Mistero della fede, vale a dire l’ostinazione nella credenza nonostante le prove contrarie all’esistenza del Dio abramitico. Nei link proposti nell’articolo è spiegato perché. Purtroppo in questo consiste anche la risposta di Samuel, benché lui cerchi di proporla veicolando un concetto di Dio «non tradizionale».
«Mistero della fede» è la scappatoia dei credenti quando non sanno replicare alla domanda: Dio non può o non vuole impedire la sofferenza innocente? Di rado la risposta è questa in forma letterale. Più spesso è formulata con perifrasi e giri di parole. Parole che però tradiscono quel concetto: Dio è incomprensibile e imponderabile e i suoi piani sono al di là delle nostre limitate possibilità di comprensione. Gira e rigira, sempre lì si arriva: «Non so spiegarlo, è un Mistero, eppure io ci credo».
Lo stesso devo constatare nelle parole di Samuel.
…forse Dio non è riconducibile a queste definizioni umane.
Forse il male, il dolore, la morte non sono “problemi” da risolvere con la logica umana, ma aspetti dell’esistenza che ci mettono a confronto con i limiti della nostra comprensione.Il Divino è al di là di ogni categoria, al di là del linguaggio e della comprensione umana.
Preferisco dire: forse Dio non è come lo abbiamo pensato.
Forse la sofferenza non è giustificabile con le nostre categorie morali.
Forse il Divino è più grande, più misterioso, più libero di quanto possiamo immaginare.Forse Dio non può né vuole impedirla, semplicemente perché il Dio onnipotente e infinitamente buono così come lo abbiamo descritto e immaginato non esiste.
Questo Dio è tutto fuorché «non tradizionale», specie per la teologia più sofisticata, che ormai il «padre», il «re», il «giudice» li ha archiviati da un pezzo. Non c’è più nulla di nuovo in un Dio che per definizione non possiamo capire, non possiamo definire, non possiamo nemmeno concepire poiché Dio è – addirittura! – al di là di ogni categoria. Traduzione ultra-sintetica: «Boh, però fa niente, io insisto nel credere in Dio». Con un’aggiunta: «Continuerò a interrogarmi su di lui».
Al di là dell’insuccesso nel tentativo di risposta – «Mistero della fede» non è accettabile –, vedo due contraddizioni nell’articolo di Samuel.
- L’autoreferenzialità: nel momento stesso in cui lo si definisce al di là di ogni categoria, già lo si pone in una categoria. E tanti saluti alla coerenza.
- Il fallimento inevitabile: che senso ha continuare a interrogarsi e a cercare Dio, se comunque lui è al di là di ogni possibilità di immaginazione?
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Per me le religioni sono inadeguate a descrivere i loro dii perché i loro dii non esistono .
Del resto cosa sono le religioni se non tentativi riusciti di controllare l’incognito, le paure ancestrali, insomma le grandi domande della vita e della morte, dei poveri uomini cretini e ignoranti?
Così i preti, o come li chiamano in altre religioni, si sono presi il potere e per tenerlo devono essere in grado di rispondere in modo semplice ad ogni domanda o dubbio dell’uomo e questo è quello che fanno le pretaglie in giro per il mondo.
Ma una risposta fasulla a problemi reali avrà sempre qualche problema di coerenza e allora preti e credenti rigirano la frittata per non doversi rimangiare niente e così si va avanti da millenni.
Solo menti aperte, libere e capaci di ragionare da sole non hanno bisogno di queste spiegazioni, tant’è che tutte le religioni promuovono l’ignoranza.
La sfida della teodicea non può essere superata semplicemente perché quei dii che ci raccontano, inventando storie le più fantastiche, semplicemente non esistono.
Colgo l’occasione per ringraziarti sinceramente per l’attenzione con cui hai letto le mie parole e per la franchezza del tuo commento. Accolgo le tue osservazioni non come un attacco, ma come un invito al chiarimento e a un confronto più profondo, che credo possa arricchire entrambi, anche se partiamo da visioni differenti.
Nel tuo intervento, esprimi l’idea che la mia risposta ricada, in fondo, nel “mistero della fede”, inteso come una forma di rinuncia al ragionamento di fronte all’insolubilità del problema del male.
Capisco bene questa lettura, ma vorrei offrire una precisazione: ciò che propongo non è un abbandono della ragione, bensì un tentativo di riconoscere i limiti delle categorie con cui spesso cerchiamo di definire Dio.
Non sto dicendo: “Non so spiegare, ma ci credo lo stesso”.
Sto dicendo: “Forse il problema non si risolve nei termini in cui lo poniamo, perché parte da presupposti che diamo per scontati, ma che non lo sono affatto”.
Il concetto stesso di un Dio onnipotente, onnisciente e infinitamente buono, che agisce secondo le nostre categorie morali, è già una costruzione teologica, una proiezione della mente umana. E come ogni costruzione, ha dei limiti.
Questo non è un modo per chiudere la questione, ma per riaprirla in profondità. Non è una scappatoia, ma un invito a spostare il terreno della riflessione: da quello delle deduzioni logiche astratte a quello, forse più umano, della consapevolezza dei nostri limiti.
Hai osservato che affermare che Dio è “oltre ogni categoria” sarebbe una forma di autocontraddizione. Ma non intendo dire che conosco Dio come “oltre ogni categoria”, bensì che ogni nostro tentativo di definirlo finisce inevitabilmente per ridurlo a ciò che è comprensibile da noi e quindi parziale, incompleto.
Parlare del Divino implica sempre un paradosso: ciò di cui non possiamo parlare pienamente, siamo comunque spinti a cercare di esprimere. Il linguaggio religioso è per sua natura simbolico. Non è una pretesa di possesso, ma un esercizio di prossimità al mistero, con la consapevolezza che ogni parola, ogni immagine, è solo un’ombra.
Anche la scienza, in fondo, si muove in questo modo: costruisce modelli, sapendo che sono approssimazioni, strumenti, mai verità assolute. Non per questo li considera inutili.
Un’altra tua osservazione riguarda il senso della ricerca di Dio, se davvero Egli è inconoscibile.
Ma se riducessimo il valore della ricerca alla possibilità di arrivare a un risultato definito e certo, perderemmo il senso stesso del cammino umano. Molte delle cose più preziose della nostra vita sono infinite nella loro profondità: l’amore, la giustizia, la bellezza, la verità. Non le possediamo mai pienamente, ma proprio per questo continuiamo a cercarle, e in questo cercare si gioca la nostra umanità.
Per me, la ricerca di Dio non è un tentativo di definire l’Infinito, ma di lasciarmi trasformare dal suo richiamo. Non è un enigma da risolvere, ma una realtà che mi interpella, che mi chiama a vivere con più consapevolezza, con più compassione, con più responsabilità.
Dici che il Dio che ho descritto non è affatto originale, e che la teologia moderna ha già superato da tempo le immagini antropomorfe. È vero. Ma è anche vero che queste immagini sono ancora profondamente radicate nella religiosità diffusa, e sono proprio quelle che il problema della teodicea mette maggiormente in crisi.
Il mio intento non è stato quello di proporre una novità teologica, ma di testimoniare un cammino spirituale che non si fonda su certezze assolute, ma su una fede consapevole, riflessiva, aperta al dubbio e alla meraviglia.
La Fede Bahá’í, in cui mi riconosco, ci insegna che la ricerca spirituale è continua, e che la verità religiosa non è mai completa né definitiva, ma si dispiega gradualmente nella storia umana, nel cuore delle persone, nei frammenti di luce che ciascuno può cogliere.
Ti saluto cordialmente,
Samuel
Grazie per il tuo commento, Samuel.
Riconosco nella tua risposta la paraculata della ridefinizione, della quale ho già parlato negli articoli e nei video: di fronte all’incompatibilità con la sofferenza innocente, si dice che “Dio agisce secondo categorie morali che non sono le nostre”. Ovvero: Dio è buono ma in un senso diverso. Che appunto è una paraculata, perché le sole categorie morali che noi possediamo sono le nostre e ci dicono che chi lascia morire male un bambino è malvagio, non buono. Categorie morali che peraltro – secondo i credenti – è lo stesso ad averci rivelate.
Quali sono le categorie morali di Dio? Boh. Tu non lo sai. Non lo sa nessuno. È tutto un Mistero, di fronte al quale noi possiamo solo accettare che esista un Dio siffatto, un Dio che non sappiamo nemmeno in che modo è buono.
Perché allora dovremmo accettarlo? Quale ragione mi dovrebbe spingere a pensare che un Dio così esiste? Non ne vedo nemmeno una. E allora concludo che no, Dio non esiste, e la paraculata della ridefinizione è solo uno stratagemma per continuare a credere in un Dio nel quale si è deciso di credere prima, per tutt’altri motivi.
Quanto alla ricerca dell’amore, della giustizia, della bellezza, della verità e pure della scienza, il paragone non regge. Di tutto questo noi possiamo avere una conoscenza parziale e sempre passibile di miglioramento, ma a un certo punto solida e affidabile. Abbiamo dei parametri per definire la verità e la falsità. Di Dio invece mai, per definizione: lo dici tu, non io. Qualunque cosa possiamo arrivare a dire su Dio sarà sempre solo un grande boh, del tutto incerto, perché Dio è inconoscibile e non è nemmeno categorizzabile. Come fai ad avvicinarti alla conoscenza di qualcosa, se nemmeno puoi inserirla in una categoria, cioè l’attività nella quale consiste appunto la conoscenza?
Vabbè, fondamentalmente il riassunto è una sorta di dio generico mai descritto per bene da alcuna religione.
Un higher power.
Con la sfida a mio parere non c’entra assolutamente nulla, si parla di un dio ben specifico con determinate proprietà e la fede assoluta del credente che sia proprio così come illustrato.
Se confutiamo quel dio specifico, e adesso non so come viene descritto per bene da questa ba’hali o come si chiama, non facciamo altro che concordare con lo scopo della sfida, ovvero che il dio abramitico non può esistere.
Se ce n’è un altro di cui non sappiamo nulla, che se ne frega e neanche può aiutare Alice, è un altro discorso che deve partire da basi diverse.
Non mi è chiaro in che cosa sia diverso credere in un dio intrinsecamente incomprensibile perché fuori da qualsiasi categoria umanamente concepibile (quindi un dio di cui non posso conoscere né intuire nulla positivamente) dall’accettare di essere atei.
Il dio di Samuel è un nome diverso per “consapevolezza che non possiamo sapere tutto sul come è fatto l’universo in cui ci troviamo”. Io lo chiamerei ‘consapevolezza dei nostri limiti’, se lo vogliamo chiamare diversamente, ammetto che ‘dio’ sia un nome piú breve. Propongo in alternativa “i” che è ancora più compatto e almeno non induce a confusioni con vecchi barbuti che di volta in volta gradiscono sacrifici umani, animali, pezzetti di pisello etc.
Difficile trovare una giustificazione lucida razionale e coerente con l’idea di Dio “mainstream”, anche in questa suggestiva risposta che un po’ svicola dalla domanda iniziale. Per quanto sia doloroso, vorrei tanto credere e cullarmi nella certezza di un aldilà divino in cui esistere per sempre, la sfida di Noam è uno dei motivi più forti per cui non riesco a credere: in più i libri di Bart Ehrman su Gesù sono stati il colpo definitivo.
L’indagine su Dio porta infine a questo: indagare com’è fatta la psiche di quel singolo individuo che ha un bisogno emotivo di Dio.
Come funziona o non-funziona quella psiche?
Un ateo militante deve essere ferrato in psichiatria e in psicoanalisi:
In questo momento non vedo che tu e i tuoi amici padroneggiate questo sapere e queste conoscenze complesse e profonde. .
Non nuovo: praticamente “non so cosa è Dio ma continuo comunque a crederci e ad arrovellarmi con inutili domande a cui già so che non otterrò risposte.
Choam, mi permetto di esporti la mia idea in merito.
Non amo definirmi ateo in quanto gradirei essere considerato per ciò che sono e non per ciò che non sono. Detto questo il mio pensiero è semplice: il dio abramitico non può esistere perché crolla sotto le sue stesse proprie caratteristiche; in particolare, oltre alla Teodicea, la semplice considerazione della contraddizione tra l’essere sommamente buono e sommamente giusto. Per quanto riguarda l’ipotetico Dio Creatore dei filosofi, la cui esistenza o meno non contribuisce ad alcuna spiegazione riguardo la conoscenza dell’Universo ( che stiamo sempre cercando di ampliare) e anzi aggiungerebbe una ulteriore variabile incognita, la mia conclusione è: e chi se ne frega? Scusa ma la rudezza della conclusione mi deriva dalla considerazione che per millenni le migliori menti del pianeta siano state letteralmente buttate nel cesso mentre avrebbero potuto essere impiegate per migliorare le condizioni dell’Umanità. Sfogo di un ultraottantenne. Seguo sempre co grande piacere le tue esternazioni. Un caro saluto
Hai perfettamente ragione tu, Choam, maestro dei pensanti!
Il “credente baha’i” fa un bel discorso elegante epperò arzigogolato, ma in sostanza non fa altro che invocare il “mistero della fede”. Inoltre ammette (involontariamente?) che ogni immagine di Dio, che l’uomo si crea, non è altro che una proiezione di caratteristiche umane, come è già stato detto brutalmente da Feuerbach.