La teodicea paracula

Se ridefinisci il Bene, ridefinisci il Male, ridefinisci pure Dio, alla fine ti trovi con una teodicea inutile perché non fornisce alcun sollievo agli umani. Stupooore!


Io sono una persona semplice. Il mio è un pensiero minimalista, senza fronzoli. Il più semplice possibile, ma non più semplice del necessario. Soprattutto è un pensiero che desidera una verità se non assoluta almeno razionale, difendibile con argomenti convincenti. Perciò si sforza di prescindere dalla soggettività. In particolare le mie emozioni sono soggettive e non devono influenzare il mio pensiero. Per esempio, io ho paura della morte. Anzi no: ho paura del morire. Tuttavia non permetto alla paura del morire di influenzare il mio pensiero fino a indurmi a credere di essere immortale. Sicché, quando mi interrogo sull’essere e sul dover essere, cerco di mantenermi il più possibile distaccato.

Distaccato anzitutto nella scelta degli assiomi. Prendo da Wikipedia:

Un assioma, in epistemologia, è una proposizione o un principio che è assunto come vero perché ritenuto evidente o perché fornisce il punto di partenza di un quadro teorico di riferimento.

Partiamo da qui.

L’essere…

Mi guardo attorno, osservo la realtà e i suoi fenomeni e formulo due assiomi. Non uno di più.

La realtà esiste. Esiste al di fuori della mia mente. Che esisto io è ovvio: il Cogito cartesiano è inoppugnabile. Inoppugnabile per me, beninteso. Ma sai che c’è? Voialtri là fuori non so. Voi fate parte della realtà esterna alla mia coscienza e potreste pure essere tutti un’allucinazione, se io fossi solipsista. Io però non sono solipsista, bensì realista. Ecco quindi il primo assioma: esiste una realtà al di fuori della mia coscienza.

Dopodiché constato che nella realtà i fenomeni mostrano un comportamento regolare: posso formulare delle leggi naturali che legano fra loro alcune grandezze fisiche in forma matematica. Le leggi naturali mi permettono di descrivere i fenomeni dopo averli osservati e di prevederli prima di osservarli. Sono leggi vere in assoluto? No. Sono leggi provvisoriamente non false: le accetto finché nuovi fenomeni osservati non le violano e non mi costringono a formulare nuove leggi.

Inoltre le leggi sono semplici: fra le molte possibili, privilegio le più parsimoniose di enti e di ipotesi, più compatibili con tutte le altre leggi. Se qualcuno vuole farmi accettare una legge più complessa, che implica l’esistenza di altri enti e di altre ipotesi, deve giustificarne la necessità. Altrimenti nisba. Qualcuno ha detto Occam? Bravo. Ecco quindi il secondo assioma: esiste la realtà esterna alla mia mente è semplice, regolare e prevedibile. (Sì, lo so: questo assioma potrebbe essere suddiviso in più sotto-assiomi. Lo stesso rasoio di Occam è un assioma, di fatto.)

Questo per quanto riguarda l’essere: come la realtà è.

…e il dover essere

Poi c’è il dover essere: come la realtà deve o dovrebbe essere. Siccome io sono un ente senziente, mi chiedo: le mie azioni dovrebbero avere dei limiti? E quali limiti?

Constato subito un’esperienza personale diretta: io soffro. Non è un’assioma: la Prima nobile verità del buddhismo è un’esperienza. Alcuni fenomeni provocano in me sensazioni sgradevoli, spesso sgradevoli in maniera orribile. Le definisco dolore o sofferenza. Possono riguardare il mio corpo oppure la mia psiche oppure entrambi. Questo io lo chiamo Male.

Io aborrisco il Male. Mi fa schifo, ribrezzo, orrore. Lo evito il più possibile. La prospettiva di sperimentare il Male mi terrorizza. Mi terrorizza più della morte. Difatti la mia morte non è il Male, giacché da morto non posso sperimentare più alcunché. Assai più della morte temo il morire, specie nel dolore. Semmai la mia morte è un Male per chi sperimenta il dolore della mia assenza. Il Male è sempre e solo la sofferenza.

Io non sono l’unico ente senziente e constato che gli altri enti senzienti condividono con me l’esperienza del Male. Quando ciò accade e ne vengo a conoscenza, mi accorgo che io, benché non soffra come se il Male mi toccasse direttamente, sono addolorato. Molto addolorato, se l’ente senziente e sofferente mi è caro. Definisco questa sensazione empatia e, studiando la biologia e l’antropologia e la psicologia, avanzo un’ipotesi naturalista: l’empatia è un istinto frutto dell’evoluzione naturale degli enti senzienti più complessi, una caratteristica selezionata perché favorisce la sopravvivenza individuale e la riproduzione.

Ora posso formulare un principio etico: ogni agente senziente che in modo intenzionale provoca il Male o non lo impedisce pur potendo farlo è cattivo, ogni agente senziente che interviene per ridurre il Male è buono. Dopo il principio, la norma morale: io devo essere buono e non cattivo, io devo aiutare i buoni e ostacolare i cattivi.

È un’etica semplice. Poi applicarla è un casino. Se io provoco la sofferenza di qualcuno per evitare la sofferenza di qualcun altro, sono buono o cattivo? Dipende. Bisogna soppesare e valutare e scomodare eventuali altri valori. Nondimeno il principio generale quello è: chi fa il Male è cattivo, addirittura malvagio se il dolore provocato o permesso è inutile e insensato. È un principio semplice, quasi ingenuo, ma efficace. E ha una spiegazione naturale: emerge dal rifiuto del dolore e dall’empatia.

La mia etica è razionale e oggettiva? No e sì. No, perché non posso dimostrare che far soffrire un ente senziente è un atto malvagio nello stesso modo in cui dimostro un teorema matematico o verifico una legge naturale. Sì, perché la mia etica emerge in modo spontaneo e necessario come fenomeno biologico, quindi naturale. E la Natura è razionale.

Tanto basta

Mi serve altro? No. Il mio mondo finisce qui. Distinguo i fatti naturali dai fatti morali – dall’essere non posso dedurre il dover essere e men che meno viceversa – e formulo delle leggi descrittive per i primi e normative per i secondi. In tutto ciò che osservo non c’è nulla che mi induca a inferire l’esistenza di altro: una realtà ordinata e razionale, un’etica naturale.

Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza.
– Immanuel Kant, Critica della ragion pratica

Kant ha bisogno di Dio per fondare la propria morale, io no. La mia morale non è oggettiva, ma è quanto meno intersoggettiva, poiché è condivisa dalla gran parte del genere umano e ha una spiegazione naturale.

Tanto basta. Se mi si vuole convincere dell’esistenza di altro, me ne si deve dimostrare la necessità.

L’ente creatore…

Qualcuno sostiene che esista un ente creatore dell’universo con le sue leggi. Poiché codesto ente non fa parte dell’universo, deve essere trascendente, deve stare in una dimensione differente. Deve essere ontologicamente diverso. I credenti lo chiamano Dio.

È possibile? Mah. Sì, direi di sì. Non posso escluderlo. Per accettarlo dovrei avere delle prove di qualche tipo. Ci sono prove della sua esistenza?

No, non ci sono, ammettono alcuni credenti. Allora grazie, ma anche no. Credano loro ciò che desiderano, ma io ne faccio a meno. Non ho bisogno di questa ipotesi, come disse Laplace all’Imperatore.

Sì, ci sono, affermano altri credenti. E snocciolano pseudoargomenti filosofici e naturalistici per dimostrare che l’ente trascendente e creatore esiste. L’argomento ontologico. L’argomento cosmologico kalam. Il fine tuning.

Io studio le presunte prove, le indago con rigore razionale e constato che sono tutte stronzate. Tutte, senza eccezioni. Non uno solo degli argomenti teologici è non dico cogente, ma nemmeno convincente, ma nemmanco ragionevole. Sicché concludo ancora che grazie, ma anche no. Come prima: credano loro ciò che desiderano, ma io ne faccio a meno. Non ho bisogno di questa ipotesi.

…ma anche onnipresente, onnisciente, onnipotente e buono

Fra i credenti nell’esistenza del creatore trascendente, i seguaci di una particolare versione divina sostengono che esso è onnipresente (si trova in ogni luogo del tempo e dello spazio), onnisciente (conosce ogni evento passato, presente e futuro), onnipotente (può compiere qualsiasi azione, purché compatibile con la logica) e buono. Ma buono in che senso? Buono e basta, mi sembra di capire. Buono come può essere buono chi non provoca e non permette il dolore degli enti senzienti. Che altro dovrebbe essere, scusa?

Difatti intorno a me vedo molti fra i credenti rivolgersi a quella variante di Dio per impetrare grazie, ottenere favori, ricevere misericordia e perdono. Per loro Dio dovrebbe prestare attenzione e, mosso dalla propria bontà, soddisfare le richieste.

Io mi guardo intorno e constato la continua sussistenza di un grande Male: innumerevoli enti senzienti soffrono in modi atroci. Il dolore è l’esperienza più condivisa in tutto il cosmo: nasciamo nel dolore, campiamo nel dolore, crepiamo nel dolore. Dalla mosca intrappolata nella ragnatela fino all’ustionato in terapia intensiva, passando per mia figlia che è appena stata scaricata dalla fidanzata, non un solo ente senziente può ignorare una sofferenza più o meno intensa. Un Dio onnipotente potrebbe impedire tutto questo. Un Dio buono dovrebbe impedirlo. Se il Male continua a sussistere, quel Dio o non è onnipotente o non è buono. Un Dio onnipotente e buono, di fronte al Male, di fronte all’esperienza del dolore degli enti senzienti, non può esistere. È logica, banale logica. E Dio è sottomesso alla logica: me lo assicurano i credenti stessi.

Caliamo questo pippone astratto nella realtà della polemica fra atei e credenti a proposito dell’esistenza del Dio abramitico – ché proprio di lui stiamo parlando – e recuperiamo il sillogismo esposto nella live dedicata alla razionalità della fede cattolica.

Premessa 1: Chiunque, senza alcuna ragione altruista e con un atto di volontà consapevole, lasci soffrire un bambino senza eliminare la sua sofferenza, pur potendo farlo, è malvagio.
Premessa 2: Dio potrebbe compiere qualsiasi azione, anche far sparire la sofferenza dei bambini che muoiono, ma li lascia soffrire senza alcuna ragione altruista e con un atto di volontà consapevole.
Conclusione: Dio è malvagio.
Siccome il Dio abramitico è onnipotente e buono, allora il Dio abramitico non può esistere.
Quindi il Dio abramitico non esiste.

Questa è la conclusione logica alla quale arriva chiunque fondi la propria conoscenza del mondo e il proprio sistema etico sulla razionalità. Chi continua a credere nel Dio abramitico non è razionale.

Il terzo assioma. Anzi il dogma

Il credente abramitico aggiunge, fin dal suo primo sguardo indagatore sulla realtà, un altro assioma che in realtà è un dogma: Dio esiste ed è onnipresente, onnisciente, onnipotente e buono. Il credente ci crede e basta. Perché? Per fattori extraepistemici. Di solito gli hanno insegnato a crederci quando era piccolo e influenzabile dai propri adulti di riferimento. La grande maggioranza non va oltre e vive la propria esistenza nella bovina e acritica convinzione che Dio, in una delle varianti abramitiche, esiste.

Altri credenti abramitici riflettono, si accorgono della mancanza di argomenti in favore del dogma e, se sono teologi, cercano degli argomenti razionali per giustificarlo e renderlo, se non dimostrato – del resto è un dogma –, per lo meno ragionevole: l’argomento ontologico, l’argomento cosmologico kalam, il fine tuning, la resurrezione di un profeta apocalittico sedicente figlio di Dio avvenuta 2000 anni fa o la onirica dettatura divina di un Libro sacro a un cammelliere mediorientale. Il cumulo di minchiate elencate prima, più quelle peculiari del loro specifico Dio. Non funzionano? Non sono convincenti? Sono demenziali? Chissenefrega. Gli apologeti, difensori della propria fede attraverso la divulgazione, con la stessa ottusità di una mosca che si schianta e si rischianta sul vetro di una finestra chiusa ripetono e ripetono sempre le stesse minchiate dei teologi, benché siano sputtanate e impresentabili.

Poi c’è il problema del Male. E allora sono cazzi amari. È molto più difficile venirne fuori. Magari quel profeta apocalittico davvero è risorto e magari quel cammelliere davvero ha sognato i versetti del Libro – va’ a sapere –, tuttavia ci vuole una formidabile spudoratezza per continuare a considerare onnipotente e buono un Dio che lascia crepare male i bambini.

Pertanto i teologi cominciano a inventare delle teodicee per salvare il proprio Dio. Non possono rinunciare al dogma: Dio esiste ed è onnisciente e onnipotente e buono e, se la logica smentisce la sua esistenza, vaffanculo alla logica.

Alcuni invocano il libero arbitrio: «La sofferenza si verifica perché le creature sono cattive e la provocano». Il libero arbitrio non spiega il dolore causato dai fenomeni naturali. «Eh, ma Dio lo permette perché le creature sono cattive, peccano e se lo meritano». Come la mettiamo come i bambini? Quale peccato può mai aver commesso un bambino? «Eh, ma tutti siamo macchiati dal peccato originale dei nostri antenati». Oppure: «Eh, ma Dio lo permette perché ha come scopo un Bene superiore». Non sto a proseguire con l’elenco delle cazzate. Se mi segui da tempo, ormai ti è chiaro: le teodicee falliscono tutte, vuoi perché sono demenziali e ridicole, vuoi perché non spiegano ogni sofferenza, specie i dolori più terribili subìti dai più innocenti. Ma ancora chissenefrega: chi crede continua a credere di fronte all’evidenza dell’assurdità. L’importante è non scalfire il dogma, anzi nemmeno dubitarne: il Dio abramitico esiste.

L’ultimo baluardo di chi crede, sollevato quando si trova con le spalle al muro, è il Mistero della fede. Ossia: «Le ragioni di Dio sono imperscrutabili e incomprensibili per noi creature limitate. Dio ha dei piani misteriosi che noi non possiamo capire. Dio conosce il quadro generale delle cause, degli effetti e delle conseguenze. Se Dio consente il dolore dei bambini, deve avere i suoi buoni motivi, anche se io non li conosco».

Facci caso: la comparsa di aggettivi come «inspiegabile», «imperscrutabile», «incomprensibile», «misterioso» o qualche perifrasi per dire la stessa cosa usando dei sinonimi rivela sempre una riformulazione del Mistero della fede.

Cazzate. Tutte cazzate. Cazzate che hanno un’unica traduzione: «Non so che cosa rispondere, non ho una spiegazione razionale, comprendo razionalmente che un Dio onnisciente, onnipotente e buono non può essere conciliato con la sofferenza naturale innocente, però continuo a credere che quel Dio lì esista. Ci credo non solo in assenza di prove. Ci credo anche di fronte a una inoppugnabile prova contraria come è l’esistenza del Male». Una totale, definitiva, indecente e indegna rinuncia alla razionalità. (Aggiungi aggettivi a piacere: l’atto di fede di fronte all’evidenza contraria non sarà mai esecrato abbastanza.)

La domanda

Nessun apologeta finora ha superato – neppure affrontato, per la verità: sono un branco di fifoni – la sfida della teodicea, rispondendo a una semplice domanda:

Per quale motivo un Dio onnisciente, onnipotente e buono permette la sofferenza di un innocente prima della sua morte provocata da cause naturali, nonostante quello stesso innocente invochi la morte pur di smettere di soffrire? Per quale motivo un Dio onnisciente, onnipotente e buono non conduce immediatamente quell’innocente nel meritato paradiso, dove sarà felice per l’eternità? Non può o non vuole?

Non è una domanda originale. Nel 1979 il problema lo ha sollevato William Rowe con l’esempio di un cerbiatto sottoposto a una lunga e terribile agonia per le ustioni provocate dall’incendio della foresta in cui vive. Io propongo il caso di Alice, una bambina intrappolata sotto le macerie della sua casa distrutta da un terremoto, destinata a morire di sete nel dolore e nella solitudine, devastata dalle fitte atroci nel suo corpo e dal terrore nella sua mente. Per ore. Forse per giorni. Oppure puoi considerare il caso di Ahmed, nato con l’epidermolisi bollosa e costretto a vivere per anni senza poter ricevere una carezza, poiché ogni contatto con la pelle gli provoca dolori e ferite paragonabili a quelli di un’ustione, e senza potersi nutrire se non a prezzo di sofferenze terribili, poiché le mucose interne sono danneggiate da ogni contatto, mentre la sua famiglia nel povero villaggio pakistano non ha i soldi per farlo ricoverare in un ospedale, dove almeno gli somministrerebbero gli antidolorifici e i corticosteroidi. Perché i bambini e non il cerbiatto? Perché ho sentito un apologeta bigotto sostenere che la sofferenza animale non è importante, visto che gli animali sono stati creati da Dio in funzione delle nostre esigenze. Per dire la sensibilità umana di questo schifoso. Poi gli stronzi siamo noi, come al solito. Vabbe’. Ma il caso del cerbiatto, di Alice e di Ahmed è lo stesso: un ente senziente il cui dolore non trova giustificazione per alcuna teodicea.

Alcuni credenti abramitici sono onesti e lo ammettono: «Capisco che hai ragione tu, capisco che la razionalità sta dalla tua parte, eppure io continuo a credere nel Dio abramitico. Sono irrazionale e mi va bene esserlo». Accettano la propria dissonanza cognitiva. Se fossero tutti così, chapeau. Contenti loro nel credere nel Dio impossibile, e per quanto mi riguarda ‘sticazzi. Se non altro finché, sulla base della loro credenza assurda, non vengono a rompermi i coglioni per dirmi come io devo gestire la mia vita. Per il resto, credano in ciò che li fa stare meglio.

Altri credenti abramitici sono intellettualmente disonesti: gli apologeti, secondo i quali la fede ha un fondamento razionale. Io potrei lasciarli nel loro brodo a sparare stronzate, se fossero innocui. Purtroppo non sono innocui: la loro pretesa di un fondamento razionale per la fede ha lo scopo di diffonderla, quella fede, di renderla una credenza dignitosa insieme alla pretesa di condizionare, con quella fede, le innocue scelte esistenziali altrui. Chi amare. Come amare. Come vivere. Come morire.

Di conseguenza il problema del Male è decisivo e definitivo: la logica dimostra che il Dio abramitico non può esistere. Continuare a crederci significa nutrire una credenza irrazionale. Amen.

Dopodiché salta fuori la teodicea paracula.

Tre ridefinizioni

Nelle ultime settimane ha riscosso attenzione sia fra gli atei sia fra gli apologeti la pubblicazione di un libro dedicato alla teodicea: «Il Dio incolpevole. Il teismo classico e il problema del male», scritto da Adriano Virgili, filosofo, teologo e divulgatore.

Il libro di Virgili è ben scritto, chiaro, scorrevole, senza tecnicismi o gergo teologico. Non lo suggerirei come lettura evasiva leggera, però fa il suo: dice quello che deve dire e si fa capire. Questo per quanto riguarda la forma.

Per quanto concerne il contenuto, è un po’ ripetitivo: ribadisce una, due, tre, quattro volte concetti e conclusioni già esposti. Vabbe’, repetita iuvant, a beneficio dei poveri insipienti affinché ne ricavino dei modesti compitini da liceale. Più sospetta è l’insistenza sul dolore come esperienza umana non risolvibile e non superabile con la filosofia e la teologia.

Tuttavia, chiunque abbia una minima sensibilità umana e onestà intellettuale sa che una «dissoluzione» filosofica, per quanto rigorosa e ben argomentata, non è, e non può essere, l’ultima parola sulla questione del male e della sofferenza. C’è una dimensione del problema che trascende le sottigliezze della logica e della metafisica, una dimensione che tocca le corde più profonde dell’esistenza umana e che non si lascia placare da eleganti distinzioni concettuali: è il problema «esistenziale» del male, il grido dell’uomo sofferente.

‘Sta cosa, scritta una tantum, va bene. Ripetuta più e più volte comincia a puzzare di excusatio non petita. Come a dire: «Mi rendo conto che le seghe mentali della teodicea non aiutano chi crede in Dio ma soffre per un dolore reale e concreto». Ma allora a che serve una teodicea? A far pagare uno stipendio ai teologi?

Veniamo alla sostanza.

Tutta la parte iniziale e descrittiva del libro mi trova d’accordo: inquadra il problema del Male, espone l’enorme difficoltà derivante per chi crede nel Dio abramitico, presenta un elenco parziale di teodicee, ammette il fallimento di ciascuna di esse. Adriano Virgili considera una teodicea il Mistero della fede e la definisce teismo scettico. Lo chiamasse come gli pare, ma quello è. E non vale un cazzo, come ogni intrinseca ammissione di fallimento razionale. Transeat.

La seconda parte del libro propone una teodicea nel solco del tomismo classico e del pensiero moderno del teologo domenicano Brian Davies. L’argomento presentato da Adriano Virgili si sviluppa su tre sofisticate ridefinizioni rispetto a quanto crede il popolo dei bigotti sempliciotti.

1. La bontà di Dio non consiste nella sollecitudine nell’eliminare le sofferenze umane, bensì nella…

…sua stessa pienezza d’essere che si diffonde liberamente e gratuitamente nella creazione di un ordine che, nel suo complesso, è buono, essendo una manifestazione della sua sapienza e del suo amore (inteso come volontà diffusiva del bene).

L’amore di Dio, ad esempio, sarebbe la sua eterna e immutabile volontà di bene per le sue creature, una volontà che si manifesta nel donare loro l’essere e nel guidarle al loro fine, non una passione fluttuante.

(…) nel teismo classico, si afferma che Dio è la sua sapienza, Dio è la sua bontà, Dio è la sua potenza. Queste perfezioni sono tutte identiche alla sua unica e semplice essenza divina, che è il suo stesso essere.

(…) la bontà divina è intesa, in un senso molto più fondamentale e metafisico, come la pienezza stessa dell’essere di Dio, la sua perfezione ontologica assoluta.

2. Il Male non è la sofferenza degli enti senzienti, bensì l’assenza del Bene.

È proprio questa radice ontologica della bontà che ci permette poi di comprendere il male non come un principio positivo, ma come una sua deficienza. In questo senso ontologico, ogni cosa che esiste, dal più piccolo granello di sabbia alla più complessa galassia, possiede un certo grado di bontà semplicemente in virtù del fatto che esiste, (…)

(…) il male non è una «cosa», non è una sostanza o una realtà positiva che esiste di per sé, e certamente non è qualcosa creato da Dio. Piuttosto, il male è una privazione del bene (privatio boni), una mancanza, un’assenza di quella perfezione o di quell’essere che una creatura dovrebbe avere secondo la sua natura, ma che, per qualche ragione, non ha. In altre parole, il male non ha un’esistenza propria, ma è un «parassita» dell’essere e del bene, (…)

Il male «accade» o «emerge» quando una creatura, che è per sua natura finita, contingente e mutevole (poiché ha un’essenza che è distinta dall’esistenza), non riesce a raggiungere o a mantenere la pienezza del bene che le è proprio, o quando un agente libero sceglie un bene limitato in un modo che lo priva di un bene maggiore o lo distoglie dal suo ordine rispetto al suo fine ultimo.

3. Dio non è un agente morale, quindi non è sottoposto a un codice morale come le proprie creature, quindi non può essere giudicato.

(…) attribuire a Dio una «moralità» nello stesso senso univoco in cui la si attribuisce agli esseri umani è un profondo errore categoriale. Il Dio del teismo classico non è un «agente morale» come noi, sia pure infinitamente più perfetto. Egli non è soggetto a doveri o obbligazioni, non agisce per conformarsi a una legge morale esterna (o anche interna, se intesa come distinta dalla sua essenza), né la sua «bontà» è una questione di avere le giuste «intenzioni morali» o di compiere le «azioni moralmente corrette» secondo uno standard che potremmo, almeno in linea di principio, condividere e utilizzare per giudicarLo. La sua «bontà», come abbiamo iniziato a capire, è la sua stessa perfezione ontologica, la pienezza del suo essere. Affermare il contrario, cioè insistere nel voler misurare Dio con il metro della moralità umana, significa non solo fraintendere la sua natura trascendente, ma anche preparare il terreno per quel tipo di problema del male che Lo vede come un imputato di fronte a un tribunale che non Gli compete.

Siamo a un livello completamente diverso dalle teodicee tradizionali. Non c’è lo sforzo di escogitare motivi e giustificazioni per un Dio inerte di fronte al dolore delle proprie creature. Questa è una teodicea differente, più complessa e sofisticata.

Ed è una teodicea paracula.

Ridefinire per sanare l’insanabile

Perché è una teodicea paracula? Perché, di fronte alla contraddizione insanabile fra il Dio buono e onnipotente e la sofferenza innocente, ridefinisce tutto per sanare ciò che non può logicamente essere sanato.

Alla domanda dell’ateo «Come può un Dio buono e onnipotente permettere l’agonia di un bambino?», la teodicea tomista esposta da Brian Davies e divulgata da Adriano Virgili risponde «Dio è buono in un senso differente». E grazie al cazzo. Molto paracula, appunto.

È chiaro che cade la prima premessa del sillogismo: qualcuno può lasciar soffrire un bambino senza intervenire e nel contempo non essere malvagio. Poi, se è falsa una premessa, la conclusione non è più dimostrata. Dio è incolpevole.

Ricordi? Lo ha mostrato R. qui nel blog nell’articolo «La coerenza di Dio nelle Sacre scritture». In sintesi: in nessun passo delle Sacre scritture Dio afferma che deve o vuole aiutare gli umani sofferenti. È una congettura di tanti credenti, tuttavia è priva di fondamento scritturale.

Se R. ha ragione, l’argomento esposto da Adriano Virgili è coerente con le Sacre scritture: non è Dio a essere malvagio, dato che non ha mai promesso di aiutare i bambini moribondi, caso mai sono i credenti abramitici che, senza giustificazioni, si aspettano da lui quel tipo di intervento. In realtà Dio è soltanto il Bene. Ma che vordì?

Vuol dire che Dio è buono poiché fa permanere ogni creatura dentro l’Essere e continua a farla esistere. C’è però una difficoltà: alcune forme di esistenza sono atroci. Se sei un cerbiatto ustionato e agonizzante nella foresta, preferiresti smettere di esistere. Macché: Dio ti tiene lì a crepare male. Se sei Alice sotto le macerie o Ahmed nel suo letto di dolore, chiedi a Dio di farti andare subito in paradiso. Macché: Dio tiene lì anche te a crepare male. Proprio per questo Dio è buono. Tu pensa, eh?

Sia chiaro un fatto: accettare la teodicea paracula significa affermare che Dio è buono se lascia agonizzare le proprie creature. Nelle Scritture non ha promesso di aiutarle – e pure dovrebbe far riflettere –, quindi non le aiuta. E va bene così. Stacce. Lo specifico per il povero stronzo secondo il quale il libro di Adriano Virgili avrebbe risolto il problema del Male e il sillogismo di Choam Goldberg sarebbe smentito, ma in tutta evidenza non ha capito un cazzo, perché non trae l’inevitabile conseguenza logica della teodicea paracula: Dio lascia morire male i bambini ma è buono lo stesso.

Dio e il Bene

Eutifrone è uno dei tanti disgraziati che, nelle proprie faccende affaccendati, hanno la sfiga di incrociare quel grandissimo cagacazzi di Socrate che, simpatico come un’ispezione manuale della prostata, attacca bottone con chiunque e mette in crisi le ingenue certezze della involontaria vittima di turno. Nel caso di Eutifrone, tutto il dialogo fra il filosofo e il poveretto ruota intorno alla domanda: «Il pio è amato dagli dei perché è pio, oppure è pio perché è amato dagli dei?». Con parole moderne: qual è la relazione fra Dio e il Bene?

Per i credenti nel Dio abramitico è una bella rogna. A differenza dei politeisti, che di dèi ne hanno un fottìo e il Bene e il Male li appioppano di qua e di là, i monoteisti hanno una sola divinità, oltretutto suprema e assoluta, inferiore a nulla. Dunque devono porsi il problema: il Bene è Bene perché Dio lo vuole oppure Dio vuole il Bene perché è Bene?

Nel primo caso qualsiasi cosa Dio voglia è Bene. Pertanto – un esempio di pura invenzione, sia mai che qualcuno mi accusi di fare riferimento a un caso reale –, se Dio ti ordina di assediare ed espugnare una città e di sterminare tutti gli abitanti, compresi vecchi, donne, bambini e animali da cortile, tu obbedisci: assedi, espugni, stermini. Zitto e muto. Non rompere i coglioni con domande impertinenti, ché quello è il Bene perché lo ha detto Dio. Avrebbe potuto ordinarti – un altro esempio di pura invenzione, sia mai che eccetera – di aiutare i poveri disgraziati aggrediti e pestati e derubati dai briganti, e tu avresti dovuto ubbidire con la stessa ottusa sottomissione. Si chiama «teoria del comando divino»: fa’ quello che Dio ordina perché Dio lo ordina. Siamo nel regno del puro arbitrio divino.

Nel secondo caso il Bene è indipendente da Dio, il quale deve – deve! l’onnipotente deve! – adeguarsi a un’etica indipendente da lui. Dio si adatta al Bene, più grande di lui, e diventa un semplice intermediario fra il Bene – lui sì l’Assoluto – e te. Quando tu conosci il Bene, puoi sbattertene di Dio, che non ti serve più. La Verità etica sta lassù, da qualche parte nell’Iperuranio – sa-il-cazzo-perché quella e non un’altra –, e tutti, compreso Dio, devono sottomettersi.

In entrambi i casi Dio non ci fa una bella figura.

Con la teoria del comando divino il credente abramitico è costretto ad ammettere che Dio può dare ordini ripugnanti ai quali noi dobbiamo ubbidire. Lo ha fatto William Lane Craig, tanto stimato e apprezzato e lodato dagli apologeti de’ noantri, secondo il quale Dio potrebbe ordinare di compiere una strage in una scuola elementare.

«…but it is possible for God to issue commands that would override what our moral duties are. So sure, yeah, I would say that it is possible…»

Però William Lane Craig considera ingiustificato chi, sulla base di questo ordine, la strage la compie davvero.

«…but that’s not to say that anyone would ever be justified in believing it.»

Coerenza ne abbiamo?

Se invece il Bene è Bene a prescindere da Dio, il credente abramitico è obbligato a negare a Dio uno status morale assoluto, poiché Dio è dipendente da una legge etica a lui superiore. Un Dio ben strano e limitato.

Come se ne viene fuori?

Dio è il Bene

Per esempio come propone Adriano Virgili: la relazione fra Dio e il Bene è l’identità. Dio non vuole il Bene. Dio non ordina il Bene. Dio non è sottomesso al Bene. È tutto assai più semplice: Dio è il Bene. Dio è il Sommo Bene, il Bene Perfetto. E tu sentiti libero di aggiungere maiuscole a cazzo: con l’Assoluto non si sbaglia mai. Geniale!

(…) la bontà di Dio non è una virtù morale o una disposizione benevola analoga a quella umana, che Lo «obbligherebbe» ad agire in un certo modo di fronte al male secondo standard etici a noi comprensibili. La bontà di Dio è la sua stessa perfezione ontologica, la sua identità con l’Essere Stesso (Ipsum Esse) e quindi con il Sommo Bene (Ipsum Bonum). Dio è il Bene, la pienezza infinita di ogni realtà e perfezione.

Però.

Astratto, troppo astratto

D’accordo: il Bene è l’Essere. La Bontà di Dio si manifesta nel mantenere le creature nell’Essere. Dio è il Bene. Ci siamo. Con un bello sforzo di astrazione, ma ci siamo. Stiamo volando altissimi. Platone ci fa le pippe.

Però il Dio abramitico non è una roba astratta. Per niente. Il Dio abramitico è molto concreto. Lui fa e disfa, crea e distrugge, ordina e proibisce, premia e punisce. Ha una consapevolezza e una volontà e una libertà. Ti consiglia perfino di costruire il cesso lontano dall’accampamento. Addirittura Dio diventa lui stesso un uomo. Da uomo mangia, beve, dorme. Prende a cinghiate i mercanti nel Tempio. Muore malissimo. Infine risorge pur restando materiale. E da risorto e materiale mangia del pesce.

Come può un concetto astratto – il Bene, la perfezione ontologica, l’Ipsum Esse – essere nel contempo una persona – per i cristiani tre, e anche qua sono cazzi amari se provi a capirci qualcosa – dotata di consapevolezza, volontà e libertà e financo un uomo fatto di atomi? Se ti sembra una stronzata, è perché è una stronzata.

Ma non era onnipresente?

Ma ecco un’altra ridefinizione: Adriano Virgili aggiunge che il Male è assenza di Bene. Cioè un’altra paraculata per sanare l’insanabile. Che crea più problemi di quanti ne risolva.

Se il Male è l’assenza di Bene e se Dio è il Bene, allora il Male è l’assenza di Dio. Perciò, dove c’è il Male, non c’è Dio. Nell’agonia di Alice morente sotto le macerie della sua casa distrutta da un terremoto, nel preciso volume dello spaziotempo quadridimensionale del corpo e della psiche della bambina, Dio non esiste. Ma scusa, Dio non era onnipresente? Non era in ogni tempo e in ogni luogo? Oppure Dio ha deciso di ritirarsi da qualche tempo e da qualche luogo?

Adriano Virgili non è uno sprovveduto. Non ha bisogno che arrivi io a mostrargli la magagna della ridefinizione. Ci mancherebbe. Perciò ha una risposta.

Ciò significa che ogni cosa, nella misura in cui è, nella misura in cui possiede l’essere, è anche buona.

Piuttosto, la domanda diventa: come è possibile che in un mondo creato e continuamente sostenuto nell’essere da Colui che è l’Essere e il Bene Stesso, possano darsi delle privazioni di quell’essere e di quel bene?

(…) il male «accade» come una sorta di «effetto collaterale» della fragilità e della limitatezza intrinseca dell’ente creato.

La possibilità della privazione (cioè del male) sorge dalla natura stessa degli enti creati, che sono per definizione composti, contingenti e mutevoli (la loro essenza è distinta dalla loro esistenza e sono un misto di potenza e atto), e non da una «decisione» o da una «composizione» interna a Dio.

Dio causa forse anche il male, inteso come questa privazione? La risposta del teismo classico a questa domanda è articolata e richiede una distinzione fondamentale riguardo alla causalità divina: Dio causa direttamente (per se) l’essere e il bene delle creature, ma non causa direttamente (per se) il male come privazione. Il male, piuttosto, emerge o come conseguenza dell’abuso della libertà nelle creature razionali (nel caso del male morale) o come risultato intrinseco della finitezza, della contingenza e della corruttibilità del mondo creato (nel caso del male naturale).

Per quanto riguarda il male naturale, la sua origine è vista nella finitezza, contingenza e corruttibilità afferenti al mondo creato.

La «bontà» ontologica di Dio si manifesta nel creare e conservare un universo che, nel suo complesso, è buono e ordinato, e nel quale ogni creatura partecipa, secondo il suo grado, all’essere e al bene. Non si manifesta nel «combattere» o «eliminare» delle privazioni che sono, per così dire, le ombre proiettate dalla limitatezza dell’essere creato.

L’«imperfezione» relativa del mondo, cioè la presenza di gradi minori di essere o di bene, e la possibilità di privazioni, non è una «prova» contro Dio, ma una caratteristica intrinseca dell’essere partecipato.

Sta dicendo che Dio non avrebbe potuto creare nulla di perfetto, giacché ogni creatura, in quanto creata, deve essere finita e limitata. Dio non ha alcuna responsabilità se le creature soffrono. So’ creature, porelle.

Essa sposta la responsabilità primaria per l’origine del male (come deficienza) dalla volontà divina diretta alla condizione intrinseca della creaturalità (finitezza, contingenza, corruttibilità, libertà fallibile), pur mantenendo la sovranità totale di Dio come Creatore e Conservatore dell’universo, un universo che Egli vuole come fondamentalmente buono.

<mode Avv Francesco Catania on>Ok, ragazzi! Sei Dio e vuoi creare qualcosa. Ma ogni creatura deve per forza, in quanto creatura, essere imperfetta e quindi soffrire. Che cosa potrà mai andare storto?<mode Avv Francesco Catania off>

La Divina provvidenza

Una qualità di Dio sulla quale spesso gli altri apologeti sorvolano – non gli fa comodo, what else? – è l’onniscienza. Lui non esiste nella realtà immanente, non è sottoposto neppure ai vincoli dello spazio e del tempo. Di fronte al suo sguardo si distende tutta la storia dell’universo e dell’umanità in un colpo solo. Lui sa tutto. Tutto tutto. Adriano Virgili lo spiega bene.

Egli conosce gli eventi temporali non come li conosciamo noi (prima come futuri, poi come presenti, poi come passati), ma come eternamente «presenti» al suo sguardo che abbraccia tutta la realtà in un unico atto intellettivo.

Un ente eterno, invece, possiede la sua intera esistenza – la sua «vita interminabile» – «tutta insieme» (tota simul), in un unico atto indivisibile e perfettamente compiuto. Non c’è «prima» o «dopo» per Dio; la sua intera realtà è un presente che non inizia né finisce, che non fluisce né svanisce.

Con la propria onniscienza Dio vede e provvede e inserisce ogni ente, ogni evento naturale, ogni scelta e ogni azione creaturale nel piano della sua Divina provvidenza, cioè

(…) l’eterno e infallibile piano con cui Dio, essendo l’Essere Stesso, il Sommo Bene e la Sapienza Infinita, guida tutta la creazione verso il suo fine ultimo – la partecipazione alla sua stessa bontà – senza per questo necessitare il mondo o annullare la natura e l’autentica causalità delle sue creature, le cosiddette «cause seconde». Si tratta di comprendere come Dio possa governare ogni cosa, permettendo persino l’accadere del male (inteso come privazione), senza esserne l’autore diretto e senza che ciò contraddica la sua bontà e onnipotenza, ma anzi, manifestandole in un modo che rispetta e utilizza l’ordine che Egli stesso ha stabilito.

C’è però una dimenticanza: Dio non è un semplice osservatore, Dio è il creatore di tutta ‘sta roba. L’universo e l’umanità sono creazioni di Dio, il cui destino Dio conosce da sempre con certezza assoluta.

Come possano i credenti abramitici pensare che un Dio siffatto sia compatibile con il libero arbitrio umano è uno dei grandi misteri – un mistero davvero, questo – della fede.

Se Dio è eterno e immutabile, la sua «decisione» di permettere il male non è una reazione contingente a eventi che accadono nel tempo, ma è parte integrante del suo unico piano eterno che include la creazione di un mondo con creature libere e con un ordine naturale contingente, un mondo in cui il male (inteso come privazione, come vedremo) può di fatto accadere.

La sua bontà e la sua causalità nel donare l’essere sono costanti, eterne e immutabili, e abbracciano l’intera estensione del tempo e tutto ciò che esso contiene, inclusa la permissione del male in un ordine creato di enti finiti e liberi.

Enti finiti e liberi? Finiti di sicuro, ma liberi manco per niente.

Io sono libero soltanto se posso compiere delle scelte. Ma, se Dio conosce ogni mia scelta futura, col cazzo che io sono libero. Ogni mia decisione è già lì, scolpita nella mente di Dio fin dall’origine dello spazio e del tempo. Pretendere che Dio sia onnisciente e nello stesso tempo gli umani siano liberi è come pretendere che siano liberi i personaggi di un romanzo già scritto.

Come se non bastasse, noi portiamo le conseguenze delle nostre scelte non libere. Conseguenze imposte dallo stesso Dio che ci ha creati.

Perfino Hitler, l’archetipo prototipo della malvagità umana, non ha mai avuto alcuna possibilità di giocarsela in modo diverso, di essere e di fare qualcosa di diverso da ciò che è stato e ha fatto. E Dio sapeva che Hitler lo avrebbe fatto. E Dio ha creato Hitler pur sapendolo. E alla fine ha pure – sempre se Adolf non si è pentito nell’ultimo istante – spedito Hitler all’inferno. Povero Adolf, mega-assassino – il prefisso non è iperbolico – senza possibilità di scelta e alla fine cazziato per l’eternità.

D’altronde tutto è nei piani di Dio: dal tradimento dell’esecrabile Giuda fino agli stermìni su scala industriale del XX secolo. Nel mio piccolo, qualsiasi azione efferata io compia Dio la conosce da sempre e mi ha creato comunque e alla fine mi punirà, senza che io abbia mai avuto alcuna possibilità di agire in maniera differente.

Eppure Dio è buono. Dio è buono perché è l’Essere – in questo consiste la sua bontà – e mantiene le creature nell’esistenza. Malgrado le creature in alcune circostanze soffrano e preferirebbero non esistere affatto. Malgrado le creature siano stronze e Dio sapesse che sarebbero state stronze. Dio è buono. Non poteva fare altrimenti, giusto?

Sbagliato. Infatti poteva. Altroché se poteva.

Un altro universo è possibile

Per cominciare, esiste una dimensione esistenziale nella quale le creature partecipano della perfezione di Dio: il paradiso.

Io lo sostengo da un pezzo: l’esistenza del paradiso è il tallone di Achille di tutte le teodicee. Il paradiso le fotte senza scampo. Se ne salverebbero parecchie, se non dovessero fare i conti con il paradiso.

In paradiso il Male non esiste, poiché lì esiste soltanto il Bene. In paradiso non c’è alcun dolore imposto alle creature. Creature senza Male? Ma l’imperfezione non era «una caratteristica intrinseca dell’essere partecipato»?

Per di più in paradiso non c’è alcun peccato. I santi e i beati mantengono il libero arbitrio – oppure no? – eppure non peccano. Allora è possibile! Ma non sono gli apologeti a sostenere che il Male è inevitabile proprio a causa del libero arbitrio, che se non avessimo la possibilità di peccare saremmo marionette? I santi e i beati in paradiso sono marionette?

In secondo luogo, Dio avrebbe potuto creare un universo senza il Male. Non lo dico io: lo dice Adriano Virgili, smentendo quanto aveva sostenuto prima.

Dio avrebbe potuto creare un universo diverso, con tipi diversi di creature e quindi con tipi e gradi diversi di privazioni possibili (o forse, ipoteticamente, un universo senza alcuna privazione, sebbene sia difficile concepire un universo di creature finite e molteplici che sia totalmente esente dalla possibilità di deficienza). Ma Egli ha voluto questo universo, con il suo specifico ordine e la sua gamma di beni, (…)

La Sua capacità di creare un mondo differente, con enti liberi e indefettibili nel bene, rimane integra e testimonia la Sua assoluta sovranità e potenza, che non è limitata a un’unica modalità di manifestazione della Sua gloria e bontà.

L’esistenza del male (inteso come privazione) nel nostro mondo non suggerisce in alcun modo una limitazione della potenza divina, come se Dio non fosse stato in grado di creare un universo differente, magari privo di ogni possibilità di deficienza, o popolato esclusivamente da creature la cui libertà si attuasse sempre e solo nel bene. Il teismo classico, al contrario, riconosce l’infinita capacità creativa di Dio. La presenza del male in questo ordine creato testimonia piuttosto la libera scelta della sapienza divina di attualizzare proprio questa specifica e complessa armonia dell’universo.

Come sarebbe a dire «un universo senza alcuna privazione»? E «capacità di creare un mondo differente, con enti liberi e indefettibili nel bene»? Ma scusa, non ha spiegato che il Male è «una sorta di “effetto collaterale” della fragilità e della limitatezza intrinseca dell’ente creato» e «la sua origine è vista nella finitezza, contingenza e corruttibilità afferenti al mondo creato»? E adesso al contrario dice che un universo creato senza Male sarebbe possibile? Solo io ci vedo una contraddizione clamorosa?

Sempre lì si finisce

Ma lasciamo perdere la contraddizione e prendiamo per buono che sì, Dio avrebbe potuto creare un universo senza Male. E chiediamoci: perché Dio non lo ha fatto? Perché non ci ha creati tutti in paradiso?

(…) per ragioni che affondano nella sua infinita sapienza e bontà (che, ricordiamolo, è la sua stessa pienezza d’essere che si diffonde).

(…) la permissione divina del male è intrinsecamente connessa alla scelta originaria e fondamentale di Dio di creare questo specifico tipo di universo: un universo popolato da una molteplicità di creature finite, contingenti, mutevoli e, nel caso degli enti razionali, dotate di autentica libertà. Ed è proprio la natura di un tale ordine creato che comporta intrinsecamente la possibilità del male come deficienza, come fallimento o come privazione del bene dovuto. In questa prospettiva, come insegna Agostino, lì dove Dio permette un male – conseguenza della natura di un ordine creato che Egli ha liberamente voluto per manifestare la sua gloria attraverso una gamma diversificata di beni partecipati – lo fa in quanto, nella sua infinita sapienza e onnipotenza, sa comunque trarre da quella stessa permissione un bene superiore, anche se le modalità specifiche di questa divina alchimia possono rimanere a noi imperscrutabili.

(…) la scelta divina di creare un ordine di esseri umani la cui libertà, in questo attuale stato di cose, include la possibilità di peccare, non deriva da un’impossibilità divina di fare altrimenti, ma da ragioni che appartengono al Suo imperscrutabile piano per questo specifico universo.

Eccallà. Sempre lì si finisce, cazzo: a sbattere contro le imperscrutabili ragioni di Dio.

Ora, se il male, come abbiamo stabilito, è una privazione di essere, una mancanza di quel bene che dovrebbe essere presente in una creatura, allora «eliminare il male» significherebbe, in ultima analisi, «colmare quella mancanza di essere» o, in modo preventivo, «impedire che quella mancanza si verifichi». Certamente Dio, essendo la fonte prima e la pienezza di ogni essere, ha il potere di conferire essere e perfezione, e ha anche il potere di creare creature libere che, di fatto, scelgano sempre il bene e non introducano alcuna deficienza morale nel loro agire. La tradizione teologica, ad esempio, contempla l’esistenza di tali creature (come gli angeli santi o i beati). La questione fondamentale, dunque, non è una presunta incapacità divina in tal senso, ma piuttosto perché, nella Sua libera scelta, Egli abbia voluto questo universo, che include creature la cui libertà, in questo ordine specifico, può fallire, e creature la cui natura materiale comporta la corruttibilità. Questo specifico mondo non esiste, infatti, perché la potenza di Dio trovi un limite nel fatto che sarebbe contraddittorio pretendere che degli enti finiti liberi non potessero per principio compiere il male, ma perché Dio, nella sua onnipotenza lo ha voluto così. E Dio lo ha voluto così perché così gli è piaciuto di volerlo.

Capito? Gli è piaciuto di volerlo. E tu zitto e muto ancora una volta: a Dio è piaciuto così, chi cazzo sei tu per discutere ciò che a Dio piace o non piace?

L’argomento evidenziale, quando sottolinea l’apparente «inutilità» o «gratuità» di certi mali, come la celebre sofferenza del cerbiatto di Rowe, lo fa presupponendo che ogni male, per essere compatibile con un Dio buono, debba avere uno scopo redentivo o una giustificazione morale a noi evidente. Ma se il fine ultimo della creazione è la manifestazione della gloria e della bontà di Dio attraverso una molteplicità di enti che partecipano dell’essere, e se la «bontà» di Dio non è quella di un agente morale che persegue fini utilitaristici a noi noti, allora ciò che dal nostro punto di vista limitato appare «inutile» o «gratuito» potrebbe avere un significato (o essere una conseguenza inevitabile di un ordine buono) all’interno della totalità del piano divino, che è per noi largamente imperscrutabile nei suoi dettagli.

Non ci dice perché quel bambino si sia ammalato o perché quella catastrofe sia avvenuta. Queste sono domande che possono trovare risposte parziali nelle cause seconde (scienze naturali, psicologia, sociologia) o che, per il credente, possono rimanere avvolte nel mistero della permissione divina e della sua Provvidenza particolare, che opera in modi che spesso ci sfuggono ma che si confida essere ordinati al bene ultimo. Lo scopo della dissoluzione tomistica è più limitato ma filosoficamente essenziale: smontare l’argomento ateologico, cioè dimostrare che il male, correttamente inteso, non può essere usato come una leva per scardinare la razionalità della fede in un Dio che è l’Essere Stesso e il Sommo Bene.

Questa apertura al mistero comporta una necessaria accettazione dei limiti della nostra comprensione. Non possiamo, e forse non dobbiamo nemmeno pretendere di, conoscere il «perché» dettagliato di ogni singola sofferenza, di ogni tragedia, di ogni apparente ingiustizia. Se Dio è davvero l’Essere eterno, immutabile e semplice che il teismo classico descrive, il suo «piano» (se così possiamo chiamarlo, usando un linguaggio sempre analogico e inadeguato) abbraccia la totalità del tempo e dello spazio, le interconnessioni infinite tra miriadi di cause seconde e fini che possono trascendere completamente il nostro orizzonte terreno.

In conclusione, Dio avrebbe potuto creare un mondo senza il Male, nondimeno ha liberamente deciso di creare questo mondo nel quale il Male esiste, ovvero nel quale ci sono luoghi e momenti nei quali il Bene è assente. Perché? Perché gli andava di farlo così. Per le sue ragioni imperscrutabili a causa dei limiti della nostra comprensione.

Ovvero il Mistero della fede. Scacco matto, ateacci!

Un Dio amorale

Inoltre Dio non è un agente morale: questa è la terza ridefinizione proposta da Adriano Virgili.

Gli agenti morali umani, innanzitutto, sono tipicamente soggetti a doveri e obbligazioni. Sentiamo di «dover» fare certe cose (dire la verità, aiutare chi è in difficoltà) e di «non doverne» fare altre (uccidere, rubare). Questi doveri possono derivare da una legge morale percepita, da convenzioni sociali, da ruoli specifici che ricopriamo, o da un senso innato di giustizia. Ma a chi o a cosa potrebbe mai Dio «dovere» qualcosa? Essendo la Causa Prima non causata, la fonte di ogni essere e di ogni ordine, non c’è alcuna entità superiore o esterna a Lui che possa imporgli degli obblighi.

(…) la moralità umana implica spesso la conformità a una legge o a uno standard morale che, per quanto possa essere interiorizzato, è in qualche modo «altro» rispetto all’agente stesso. Agiamo bene quando le nostre azioni si allineano con i principi di questa legge. Ma Dio, nel teismo classico, è la sua stessa legge, la sua stessa norma.

Noi siamo agenti morali, noi possiamo agire o non agire in modo morale e sulla base delle nostre azioni essere giudicati, quando siamo vivi dagli altri umani e quando saremo morti da Dio. Dio per converso non deve rispondere delle proprie azioni a nessuno, non ha doveri verso nessuno. Non è nella sua natura avere dei doveri. Lui gioca in un altro campionato, addirittura in un altro sport: rimproverare Dio perché non agisce come un agente morale è come rimproverare Jannik Sinner perché non segna mai un gol.

Dio come la Natura?

Di fronte alle decisioni di Dio, compresa quella di far crepare male i bambini, noi dobbiamo chinare il capo e sottometterci e accettare quanto Dio ha deciso. Ricorda qualcosa? Sì, ricorda un po’ il panteismo.

Io sono panteista. Mi dichiaro ateo per semplicità, però sono panteista. Ho spiegato come per un ateo il panteismo sia inevitabile, giacché alla realtà naturale è inevitabile concedere una delle qualità di Dio: la necessità ontologica. Se la Natura è ontologicamente necessaria, almeno in questo senso la Natura è Dio. Deus sive Natura, diceva Baruch. E gliel’hanno fatta pagare. Io vivo in tempi e luoghi civili e posso dire Natura sive Deus.

La Natura è indifferente. La Natura non ti vuole né bene né male, non ti ama e non ti odia. La Natura di te se ne stracatafotte i coglioni. Si scatena un terremoto e tu muori sotto le macerie della tua casa. Oppure nasci con una malformazione congenita e sei condannato a una lunga vita di orrende sofferenze. Càpita. Che vuoi fare? Incazzarti? E con chi? Con la Natura? Non puoi sottoporre la Natura a un giudizio morale. Stacce.

Non potrebbe valere lo stesso per Dio? Poiché Dio non è un agente morale, poiché non puoi sottoporre Dio a un giudizio morale, stacce. Che ti cambia?

Cambia tutto.

Cambia tutto perché la Natura non ha né libertà né volontà né identità personale. La Natura semplicemente è come è. Il Bene e il Male sono nient’altro che giudizi soggettivi: il Male della gazzella è il Bene del leone. Non ha senso per la gazzella incazzarsi con la Natura, come non ha senso per il leone lodarla e ringraziarla.

A differenza della Natura, Dio è un ente senziente, cosciente, consapevole, dotato di libertà e di volontà. Lui decide. Lui vuole. Lui agisce. Se io muoio sotto le macerie della mia casa o se soffro per anni a causa di una malattia congenita è perché Dio lo vuole. Perciò sì, io avrei delle ottime ragioni per sentirmi – come dire? – un pochino alterato nei suoi confronti, se lui esistesse.

«Io so’ io e voi non siete un cazzo»

Dio, sebbene non sia un agente morale, è un giudice morale. Dio impone – o enuncia?… boh, chiedilo a Eutifrone – delle leggi morali alle quali tu, creatura, devi conformarti. Poco importa che lui sia la sorgente della legge morale o l’intermediario della legge morale o la legge morale stessa: resta il fatto che la legge morale divina esiste e tu devi rispettarla e se non lo fai sono cazzi amari, perché nel momento del giudizio finale sarai chiamato a rispondere delle tue azioni e se per caso avrai violato qualche regola subirai una punizione, magari eterna se la violazione è molto grave.

Dio, il giudice morale, quale codice etico usa nel momento del giudizio? Lasciamo perdere le 613 mitzvot e restiamo al cristianesimo. Prendiamo i 10 comandamenti. Per semplicità restringiamo l’attenzione ai due soli comandamenti fondamentali esposti da Gesù, cioè dal Figlio di Dio, cioè da Dio: ama Dio e ama il tuo prossimo.

Amare Dio è facile. Lo adori. Preghi. Pensi sempre a lui. Volendo esagerare, ti ritiri in un monastero di clausura e vita contemplativa e non fai altro, dedicandogli l’intera tua vita.

Amare il tuo prossimo è un’altra storia. Il tuo prossimo spesso è sgradevole. Ma poche scuse: Dio ti ordina di amarlo, e tu lo devi amare. Su, dai: amalo! Ama chi ti sfrutta e ti paga con uno stipendio indecente. Ama chi ti brucia la casa. Ama chi ti ammazza un figlio. Lo spiega Gesù: ad amare gli amici sono bravi tutti, ma la vera virtù consiste nell’amare i nemici. Un’etica disumana, come minimo.

Sorvoliamo sull’amore e occupiamoci della prassi. Il tuo prossimo tu lo devi aiutare quando è nel bisogno. Qua non ci sono scuse: questa cosa la puoi fare. Non si tratta di emozioni fuori dal tuo controllo, ma di azioni che puoi compiere con la tua volontà. Anche se il bisognoso ti sta sui coglioni e lo prenderesti a sberle o quanto meno lo lasceresti ad affogare nella merda, tu puoi ignorare le tue pulsioni, perciò devi ignorarle. E devi aiutare il bisognoso. Ricordi il buon samaritano? Se trovi un moribondo sul ciglio della strada, devi intervenire e fornirgli soccorso. Altrimenti per te saranno cazzi amari.

«Allora il re risponderà:
– In verità, vi dico: tutto quel che non avete fatto a uno di questi piccoli, non l’avete fatto a me.
«E questi andranno nella punizione eterna mentre i giusti andranno nella vita eterna».
– Matteo 25,45-46

Ma chi è che lascia i moribondi sul ciglio della strada e li lascia soffrire e morire senza muovere un dito? Chi è? Indovina un po’: Dio. Poffarbacco! Dio giudica sulla base di un codice etico… che lui per primo ignora.

Dio è fatto così: 14 miliardi di anni fa lui crea un universo che oggi si estende per decine di miliardi anni-luce e contiene centinaia di miliardi di galassie, con migliaia di miliardi di stelle e di pianeti, dopodiché s’incazza se tu, nella quiete notturna della tua cameretta di adolescente su «’sto sercio de periferia» (cit. Padre Pizzarro), ti fai qualche innocua pugnetta. Per dire i problemi seri di Dio. Dio s’incazza pure se tu non intervieni per aiutare un bambino sofferente. Già. Nel frattempo lui, Dio, non fa un cazzo per i bambini sofferenti. In un attimo potrebbe portarli in paradiso a godere della beatitudine eterna, ma niente: li lascia quaggiù a crepare male. Alla faccia della coerenza. Chissà, a ‘sto punto magari anche Dio si fa le pugnette: è legittimo sospettarlo.

Ma lui è Dio. Dio è radicalmente diverso da noi. Dio è diverso da qualsiasi altra cosa nella nostra esperienza quotidiana. E tu mica puoi giudicarlo. Dio è il marchese del Grillo: Dio è Dio, e tu non sei un cazzo.

Paraculi fin dai primi secoli

Io so quale strategia applica il teologo messo di fronte a tutti i problemi della teodicea paracula: il linguaggio analogico. Un’ulteriore paraculata clamorosa.

Il linguaggio stesso che usiamo per parlare di Dio (ad esempio, dicendo che Egli «conosce», «vuole» o «ama») deve essere inteso in senso analogico, purificato dalle imperfezioni e dalle limitazioni che questi termini comportano quando li applichiamo a enti temporali e mutevoli come noi.

Non si tratta di un trucco verbale per eludere le difficoltà, ma di un tentativo di prendere sul serio le implicazioni della trascendenza divina.

(…) essa modifica profondamente i termini della questione filosofica e ateologica, perché ci porta a interrogarci non tanto sulle «scelte morali» di un Dio agente, quanto sulla natura dell’essere creato e sulla sua intrinseca capacità di deficienza.

Quando gli mostri le incongruenze e le contraddizioni, il teologo ti risponde che sì, va bene, ma lui intendeva un’altra cosa, un altro concetto, un’altra definizione.

Il vizio di ridefinire ad minchiam per far dire alle Scritture quello che le Scritture non dicono la teologia lo ha acquisito fin dall’origine, quando lo scarto fra le Scritture e la realtà si è palesato in maniera innegabile.

Prendiamo il caso della fallita profezia dell’avvento del Regno di Dio.

E aggiungeva: «Io vi assicuro che alcuni tra quelli che sono qui presenti non moriranno, prima di aver visto il regno di Dio che viene con potenza».
– Marco 9,1

«Il Figlio dell’uomo ritornerà glorioso come Dio suo Padre, insieme con i suoi angeli. Allora egli darà a ciascuno la ricompensa in base a quel che ciascuno avrà fatto. Io vi assicuro che alcuni tra quelli che sono qui presenti non moriranno prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo e il suo regno».
– Matteo 16,27-28

Poi Gesù disse questa parabola: «Osservate bene l’albero del fico e anche tutte le altre piante. Quando vedete che mettono le prime foglioline, voi capite che l’estate è vicina. Allo stesso modo, quando vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino. Vi assicuro che non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano accadute. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno!
– Luca 21,29-33

Come ci ha insegnato il Signore, io vi dico questo: noi che siamo vivi e che saremo ancora in vita quando verrà il Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che saranno già morti. Infatti in quel giorno sentiremo un ordine, la voce dell’arcangelo e il suono della tromba di Dio. Il Signore scenderà dal cielo, e allora quelli che sono morti credendo in lui risorgeranno per primi. Noi, che saremo ancora vivi, saremo portati in alto, tra le nubi, insieme con loro, per incontrare il Signore. E da quel momento saremo sempre con il Signore. Dunque, consolatevi a vicenda, con questi insegnamenti.
– 1 Tessalonicesi 4,15-18

È scritto chiaro e inequivocabile: la venuta di Gesù e l’instaurazione del Regno di Dio sono imminenti. Che altro vuoi capire da queste parole? Però non succede niente. Passano gli anni e continua a non succedere niente. Immaginiamo dapprima la fiducia, poi la perplessità. La gente comincia a morire, i discepoli, i compagni e i conoscenti di Gesù invecchiano, poi diventano sempre meno numerosi, poi rimangono quattro gatti. Fra i neoconvertiti serpeggiano i dubbi, poi lo scoglionamento: ma non doveva tornare subito? Muore l’ultimo che aveva visto Gesù di sfuggita al mercato. Muore l’ultimo nato nel 33 d.C. A quel punto non si può più negare lo sputtanamento della profezia. O Gesù si è sbagliato e ha detto una cagata – impossibile: lui è Dio! – oppure voleva dire un’altra cosa. Che cosa? Tocca inventare per ridefinire. E c’è ampio margine di reinterpretazione: Regno di Dio, generazione, essere vivi. Basta un po’ di fantasia, il vincolo temporale cade e la profezia è salva.

Insomma fin dai primi secoli del cristianesimo la paraculaggine è un’abitudine dei teologi, che si occupano di escogitare definizioni nuove per salvare capra e cavoli, per mantenere la compatibilità fra il dogma, la verità di fede da una parte e il pensiero scientifico e la razionalità dall’altra. E funziona con tutto.

Il dogma afferma che due umani ben precisi hanno commesso il peccato originale, ma la genetica dimostra che è impossibile la discendenza di tutti gli umani viventi da un’unica coppia? Non c’è problema: il teologo ridefinisce come gli pare il concetto di coppia originale e se la cava. Nel caso di nostro interesse, la verità di fede dichiara che esiste un Dio onnisciente, onnipotente e buono, ma la realtà dimostra che è impossibile perché i bambini crepano male? Non c’è problema: il teologo ridefinisce il Bene, ridefinisce il Male e già che c’è ridefinisce pure Dio e se la cava.

Il teologo la chiama polisemia e slittamento semantico. Io la chiamo paraculaggine.

Va’ dove ti porta la polisemia

Sia chiaro: la polisemia e lo slittamento semantico sono fenomeni reali e ben noti alla linguistica. Paraculo è il modo in cui li si usa per sanare l’insanabile.

Per capire quant’è paraculo il procedimento, applichiamolo a un ambito diverso. Che cos’è la bontà in politica? In che senso un politico è un politico buono? Un politico buono agisce per aumentare il benessere e la sicurezza dei propri concittadini: far stare bene, sul piano materiale e su quello spirituale, e far sentire al sicuro le persone del proprio Paese. Fornire loro servizi efficienti: sanità, istruzione, trasporti. Proteggerle dai nemici interni ed esterni. Giusto? Fin qui siamo d’accordo? Ebbene, allora Adolf Hitler è stato un politico buono. Ha raccolto un Paese allo sbando da un punto di vista sociale ed economico e in meno di sette anni lo ha reso una ricca potenza mondiale, capace di tenere testa e dare del filo da torcere a Inghilterra, Unione Sovietica e Stati Uniti insieme. Nel 1939 in Germania gli ariani nazisti sani vivevano benissimo. Gli altri no, ma sono sottigliezze semantiche: ebrei e comunisti e disabili non potevano nemmeno essere considerati cittadini. Se ridefiniamo come persone soltanto gli ariani, il problema neanche si presenta: milioni di deportati, torturati e uccisi erano non-persone e non inficiano la bontà di Hitler così come l’abbiamo definita. Torna utile un’altra piccola ridefinizione: Hitler non ha ucciso nessuno, piuttosto ha spostato milioni di persone su un altro piano di esistenza. Senti come suona meglio? Hitler ha sbagliato quando ha scatenato la guerra e ha portato alla rovina la Germania. Un po’ gli è andata di sfiga, un po’ si è messo contro gente troppo grossa per lui, ma se avesse vinto ti immagini di quanto benessere e quanta sicurezza avrebbero goduto le persone ariane tedesche? E non vuoi riconoscere che Adolf Hitler è stato un politico buono? Suvvia, dai: non fare lo schizzinoso semantico e accetta un po’ di polisemia!

Ecco dove si arriva con la paraculata del linguaggio analogico. Se lo usi a cazzo di cane, puoi dimostrare qualsiasi cosa. Lo vediamo quando il teologo ci spiega che nel caso di Dio la bontà è una cosa diversa da quella che abbiamo sempre considerato tale.

Io, giudice di Dio

Dio è un giudice morale ma non è un agente morale. Alla faccia della coerenza, ma pazienza. Io non posso giudicarlo perché lui è Dio e io non sono un cazzo. Bada bene: io non sono un cazzo. Questo mi dice il teologo quando mi spiega che io non posso giudicare Dio. D’altro canto lo stesso teologo mi spiega il grande valore della dignità umana. Dignità di che, se di fronte a Dio io non conto niente, se il mio dolore non merita il suo intervento? E, oltre a non giudicarlo, io dovrei amarlo e adorarlo? Ma stiamo scherzando?

Io posso giudicare Dio per due motivi.

In primo luogo io sono la sua vittima. Le azioni e le inazioni di Dio sono nocive per me, provocano dolore in me. Non sono elucubrazioni e interpretazioni. Non ci sono polisemie o slittamenti semantici. Sono fatti oggettivi: io soffro qui e ora, mentre Dio provoca o non impedisce la mia sofferenza. Può pure essere il Sommo Bene, può pure avere i suoi misteriosi scopi e le sue imperscrutabili ragioni, può pure sovracompensare alla fine dei tempi, ma a me non importa un cazzo: Dio è nocivo per me e tanto mi basta per giudicarlo.

In secondo luogo io ho un mio codice morale. Un codice morale naturale fondato sull’empatia, secondo il quale chi provoca sofferenza a me o ad altri enti senzienti è malvagio. Chi lascia soffrire un bambino senza aiutarlo è malvagio. Punto. Senza se e senza ma. Senza polisemie e slittamenti semantici paraculi. Bontà e malvagità significano quella cosa lì, non un’altra. Se Dio lascia crepare male i bambini, i bigotti non lo definiscano buono. Lo definiscano duono o puono o come cazzo gli pare e parlino della sua Dontà o della sua Pontà. Ma non abbiano l’impudenza di chiamarla Bontà.

Finora tutto questo pippone è stato razionale. Ha opposto alla teodicea paracula obiezioni argomentate, evidenziandone le debolezze e le contraddizioni. Ma alla stessa teodicea si può opporre un argomento nient’affatto razionale, un argomento «di pancia». E sfido qualsiasi apologeta di ‘stocazzo a rimproverarmi.

La variante Karamàzov

Fra il 21 e il 23 gennaio 1941 i legionari della Guardia di ferro romena scatenarono un pogrom a Bucarest, durante il quale furono uccisi 125 ebrei. Potrei dire «solo 125 ebrei», pochi rispetto agli oltre 13 mila massacrati a Iasi cinque mesi dopo. Ma tant’è: sono sempre 125 vite cancellate. Il 23 gennaio 15 persone furono trascinate in un macello, appese ai ganci da macellaio, torturate, sbudellate e scuoiate vive. Quando furono scoperte, si ricostruì che erano vive durante lo scuoiamento dalla quantità di sangue versato lì attorno. Fra le vittime c’era una bambina di 5 anni. Hai letto bene: una bambina di 5 anni. Sbudellata e scuoiata viva. Non provare a visualizzarla: io l’ho fatto e adesso l’immagine mi perseguita.

Una bambina di 5 anni. Una minuscola vita senza alcun valore per nessuno vivente oggi, solo per chi la amava quand’era viva. (Il bigotto risponderà: «Ma no! Quella vita ha valore per Dio!».) Come miliardi di altre vite di enti senzienti, umani e non umani, che prima della morte hanno subìto torture indicibili. Dio avrebbe potuto ucciderla subito, ma l’ha lasciata cosciente fino all’ultimo nelle mani dei suoi aguzzini. (Meno male che per Dio la sua vita aveva valore. Chissà se non gliene fosse fregato niente.)

Uno dei tanti mentecatti dello zoo, con la sua consueta, spudorata faccia di culo, ha dichiarato che gli esempi proposti dagli atei militanti sono casi limite, casi estremi, forse inesistenti, creati apposta per dimostrare che Dio è irrazionale. E certo, in effetti noi quei casi li inventiamo come puri esercizi speculativi per dare fastidio a loro, i poveri apologeti. Andasse a raccontarlo, lo stronzo, alla bambina nel macello di Bucarest, mentre i legionari la scuoiavano viva. Poi dice che uno s’incazza e li sfancula, ‘sti apologeti. Non vomitassero simili mostruosità, li sopporterei con più calma.

(Per inciso, l’unico peccato che mai e poi mai potrà essere perdonato è la bestemmia contro lo Spirito santo. Se bestemmi lo Spirito santo sei fottuto all’inferno per l’eternità. Se invece scuoi viva una bambina di 5 anni e dopo, tanti anni dopo, pochi minuti prima di morire, ti penti e ti confessi a un sacerdote e vieni assolto, ti fai un po’ di purgatorio e alla fine anche tu vai in paradiso ad amare e adorare Dio. La bambina ebrea intanto è finita all’inferno, perché Extra Ecclesiam nulla salus. Per dire le credenze rivoltanti dei cattolici. Ma gli stronzi siamo noi.)

Ne «I fratelli Karamàzov» trovi alcune pagine molto famose. Sono quelle in cui Ivan, il fratello ateo, spiega ad Alioscia, il fratello credente, la ragione del proprio rifiuto di Dio. Se non lo possiedi, dovresti procurarti il romanzo di Dostoevskij e leggere tu stesso il dialogo: un pugno nello stomaco che non può lasciarti indifferente.

«Ma ecco, da quest’altra parte, i piccoli bambini: che cosa farò di costoro, allora? Questo è un problema che io non riesco a risolvere. Per la centesima volta torno a ripetere: di questioni ce n’è un’infinità, ma io ho preso in considerazione i bambini soli, perché qui spicca con palmare chiarezza ciò che volevo dire. Ascolta: posto che tutti si debba soffrire, per comperare a prezzo di sofferenza la futura armonia, che c’entrano però i bambini, me lo dici tu, per favore? È assolutamente incomprensibile perché debbano soffrire anch’essi, e perché, essi, debbano comperare quell’armonia con le sofferenze. (…) Comprendo bene quale dovrà essere il fremito della creazione quando ogni cosa nei cieli e sotto terra fonderà insieme in un unico grido di osanna, e tutto ciò che vive e che ha vissuto proromperà: “Giusto sei Tu, o Signore, dacché si sono svelate le Tue vie!”. (…) Ma appunto qui è l’inciampo, appunto questo non posso accettare. E fin tanto che sto su questa terra, io m’affretto a prendere le mie misure. (…) Finché sono ancora in tempo, mi affretto a premunir me stesso, e perciò, a quella suprema armonia, oppongo un netto rifiuto. Non vale, essa, le povere lacrime, foss’anche di quel bambino solo, che straziato si batteva col minuscolo pugno sul petto, e nel fetido suo canile pregava con le sue lacrime irriscattabili il “buon Gesù”. (…) E se le sofferenze dei bambini fossero destinate a completar quella somma di sofferenza, che era il prezzo necessario per l’acquisto della verità, in tal caso io dichiaro fin d’ora che tutta la verità non vale un tal prezzo. (…) Non voglio l’armonia: per amore stesso dell’umanità, non la voglio. Voglio che si rimanga piuttosto, con le sofferenze invendicate. Preferisco, io, di rimanere nel mio stato di invendicata sofferenza e d’implacato scontento, dovessi pure non essere nel giusto. Troppo caro, in conclusione, hanno valutato l’armonia: non è davvero per le tasche nostre, pagar tanto d’ingresso. Quindi, il mio biglietto d’ingresso, io m’affretto a restituirlo. E se appena appena sono un uomo onesto, ho l’obbligo di restituirlo il più presto possibile. E così faccio appunto. Non è che non accetti Dio, Alioscia: ma semplicemente Gli restituisco, con la massima deferenza, il mio biglietto.»
– Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamàzov

Vedi qualche argomento razionale? No. Non c’è niente di razionale. C’è la ribellione dell’uomo indignato che rifiuta Dio per un moto dell’animo, non per una ponderata riflessione filosofica. Fino a spingersi a dichiarare: «dovessi pure non essere nel giusto». Ovvero: m’importa una sega del Bene Supremo, m’importa una sega della oggettiva perfezione finale, io comunque Dio lo rifiuto. Una hybris coraggiosa e nobile. Ivan è educato e il biglietto lo restituisce «con la massima deferenza». Io sono più diretto e – mi conosci – per Dio non ho rispetto: con il suo biglietto mi pulisco il culo e Dio lo mando a farsi fottere. E scusa se sono umano.

Un apologeta, leggendo e ascoltando i miei discorsi sulla teodicea, ha detto che sono ammirevole e la mia sensibilità verso la sofferenza mi fa onore, che la mia indignazione è umana e che potrebbe essere il primo passo in un cammino di conversione. Io dico che è ignobile e disonorevole la sottomissione a un Dio che la sofferenza la provoca e la permette. Semmai lui, l’apologeta che accetta quel dolore e si nasconde dietro il Mistero della fede, è disumano.

Un altro apologeta mi ha rimproverato di essere incazzato con Dio. Che palese minchiata: come posso essere incazzato con qualcosa che nemmanco esiste? Piuttosto sono incazzato con i suoi fan club, che non si limitano a farsi gli affaracci loro e pretendono di condizionare e limitare le mie innocue scelte di vita. E non solo sono incazzato: li disprezzo. Chiunque accetti di amare e adorare un Dio che lascia scuoiare viva una bambina senza intervenire è un verme, un pusillanime, un individuo senza dignità. Per il resto possono essere brave persone che aiutano i bambini sofferenti, ma di fatto adorano e amano un Dio che provoca proprio quella sofferenza. Mi fanno schifo.

Mi fanno schifo loro e mi farebbe schifo anche il loro Dio, se esistesse. Non m’importa se è Dio. Non m’importa se è il Fondamento dell’Essere. Non m’importa se grazie a lui io continuo a esistere. Non m’importa se ha deciso di sacrificare sé stesso o suo figlio o ‘stocazzo per condividere le nostre sofferenze. Non m’importa una sega: chi tortura un bambino è degno solo di disprezzo e di rifiuto. Punto.

E Alice?

Alice resta lì, a morire di sete e di dolore sotto le macerie della sua casa. Così come Ahmed resta lì, nel suo letto di sofferenza senza una carezza, con l’esofago in fiamme quando inghiotte un boccone. Così come la bambina ebrea resta lì, appesa a un gancio mentre un infame fascista la scuoia viva. Così come il cerbiatto resta lì, ad agonizzare nella foresta a causa delle ustioni. Potrebbero morire immediatamente, ma Dio li lascia lì. Perché? Dio non può o non vuole?

Non cercare la risposta nel libro di Adriano Virgili: non c’è. Lui conosce l’esempio del cerbiatto di Rowe ma, alla fine della gigantesca sega mentale che è la teodicea paracula del tomismo rivisitata da Brian Davies, la risposta alla domanda non c’è.

Gli apologeti lo ammettano

Dio non può o non vuole? Le possibilità sono queste due. Tertium non datur.

Con la teodicea paracula possiamo dire che Dio può. Ci mancherebbe altro: Dio ha creato l’universo, ti pare che non può uccidere un bambino o un cerbiatto sul colpo? Del resto lo fa in innumerevoli di altri casi.

Dunque Dio non vuole. Dio assiste al dolore innocente e non interviene per interromperlo. Se lo facessi io, sarei un mostro meritevole di ogni esecrazione. Se lo fa Dio, va tutto bene. Dio è buono a prescindere. Dio è buono perché mantiene nell’Essere. Dio è il Bene. Dio è la Bontà per definizione. D’altra parte Dio non è come me, sottoposto a una legge morale. Dio è oltre, al di là, al di sopra della legge morale. Dio è amorale.

Se è così, gli apologeti lo ammettano in modo esplicito: Dio non vuole agire ma è buono comunque. Noi umani dobbiamo accettarlo così e amarlo e adorarlo e ringraziarlo comunque, ancorché del nostro dolore lui se ne stracatafotta i coglioni. Non gliene frega niente. Se gliene fregasse qualcosa, interverrebbe. Dio è indifferente: aveva ragione Epicuro.

Se è così, gli apologeti lo spieghino a tutti gli altri credenti abramitici. La Volkstheologie non sta dietro a tutte le seghe mentali dei teologi, e la fede popolare crede tutt’altro. Al vecchio con la barba seduto su una nuvola non pensa più nessuno, però per il Bigottus communis, lo strusciapanche ingenuo, Dio è un Padre benevolente e amorevole e misericordioso e attento ai bisogni umani. Là fuori le case e le chiese sono piene di gente che prega per ottenere una grazia. La signora Assunta sgrana rosari nella speranza che la Madonna interceda presso Dio e lo convinca a far trovare un lavoro al suo nullafacente nipote Giuseppe. Il piccolo Salvatore ogni sera si rivolge a Gesù affinché faccia guarire Concetta, la sua mamma, dal cancro al seno ormai esteso con metastasi alle ossa. Chi glielo spiega che Dio, sebbene non muova un dito per aiutarli, è buono sempre e comunque perché lui è l’Essere che mantiene le creature nell’esistenza? Chi glielo spiega che a Dio non importa una beneamata sega di Giuseppe e di Concetta? Lasciar loro credere che le preghiere servano a qualcosa è una crudele presa per il culo.

E comunque si finisce sempre lì

L’ateo razionale non ha bisogno di Dio né per spiegare la realtà né per fondare la propria etica. Se qualcuno gli sottopone l’ipotesi teologica abramitica, l’ateo razionale la considera, constata che non gli serve ed è pure incompatibile con quello che l’ateo vede, ossia la sofferenza innocente. E conclude che il Dio abramitico non esiste.

Il credente parte da un a priori fideista: il Dio abramitico esiste. Ma subito si schianta contro il problema del Male. Qualcuno inventa teodicee assurde, finché non è costretto a rifugiarsi dietro il Mistero della fede: un’ammissione di fallimento intellettuale. Qualcun altro, con una paraculata colossale, si trastulla con gli slittamenti semantici e le polisemie ad hoc. Solo che, se ridefinisci il Bene, ridefinisci il Male, ridefinisci pure Dio, alla fine ti trovi con una teodicea paracula ma inutile perché non fornisce alcun sollievo agli umani e piuttosto li allontana da un Dio astratto, troppo astratto. E grazie al cazzo: nelle vite degli umani, il Male è nient’altro che il dolore e la bontà è nient’altro che l’azione per ridurre il dolore. Il resto sono inutili masturbazioni intellettuali.

Masturbazioni intellettuali che peraltro non evitano la necessità di ricorrere al Mistero della fede.

Si tratta, in fondo, di imparare a dire, di fronte all’inspiegabile: «Non comprendo appieno il perché di questa sofferenza, ma mi affido a Colui che è al di là della mia piena comprensione, la cui Bontà è il tessuto stesso della realtà e la cui Sapienza governa ogni cosa». E questo, forse, è l’atto più profondamente umano e, al contempo, più autenticamente razionale che possiamo compiere di fronte al persistere del lamento di chi soffre.

Razionale un cazzo. Di fronte a una bambina di cinque anni scuoiata viva, il Dio abramitico non esiste: questo e solo questo è razionale. Se, per esistere, il Dio abramitico deve ridefinire il concetto di bontà, allora noi, con la nostra empatia, con il nostro codice etico imperfetto ma perfettibile e soprattutto naturale e umano, quel Dio possiamo, anzi dobbiamo mandarlo ‘affanculo. Dovessimo pure non essere nel giusto.

Choam Goldberg

Moi, je dis, en enfer tu peux toujours cracher à la gueule de celui qui t’y a mis.
– Léo Ferré


Avvertenza finale

Forse questo articolo riceverà delle risposte da parte di qualche credente abramitico. Risposte alle quali io potrei anche prestare attenzione. Ma a una condizione tassativa: non replicherò a nessun articolo o video o altro che non risponda in modo esplicito e inequivocabile, senza giri di parole, senza polisemie e slittamenti semantici, senza sofismi, senza fuffa e supercazzole, a due domande.

Per quale motivo un Dio onnisciente, onnipotente e buono permette la sofferenza di un innocente prima della sua morte provocata da cause naturali, nonostante quello stesso innocente invochi la morte pur di smettere di soffrire? Per quale motivo un Dio onnisciente, onnipotente e buono non conduce immediatamente quell’innocente nel meritato paradiso, dove sarà felice per l’eternità? Non può o non vuole?

Se Dio non vuole, se Dio preferisce lasciar morire i bambini fra atroci dolori senza portarli subito in paradiso, è comunque buono? Anche di fronte a una bambina scuoiata viva, ti senti serenamente in grado di affermare che Dio è buono?


Aggiornamento:

Adriano Virgili ha risposto. E io ho replicato.


Articolo aggiornato il 28 luglio 2025.


Avvertenza:
La lingua di questo articolo cerca di conciliare l’inclusività con la leggibilità e la scorrevolezza. Nessuno si offenda quindi se evita le ripetizioni e usa il plurale sovraesteso. Ché mi spiace, ma la schwa anche no.


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10 pensieri su “La teodicea paracula

  1. Complimenti per la meticolosa e stringente argomentazione, soprattutto per esserti preso la briga di spulciare in profondità un testo che, come spesso accade in questi casi, utilizza a piene mani artifici argomentativi ellittici, ridefinizioni pelose, affabulazioni pseudo-logiche.
    Ho però un dubbio rispetto a un’argomentazione spesso utilizzata dagli atei che non mi convince e mi piacerebbe sapere cosa ne pensi. Si dice che se dio è onniscente, allora non c’è il libero arbitrio. Lui sa come sono andate le cose, e quindi chi commette un male non era libero di farlo perché era già scritto. Siamo sicuri che questa affermazione sia solida da un punto di vista logico?
    Faccio l’avvocato del diavolo. Poniamo che l’uomo sia davvero libero di agire (cosa di cui dubito fortemente e che le neuroscienze mettono seriamente in dubbio). Hitler poteva fare diversamente e ha deciso di fare il male. Dunque è legittimo il mio giudizio morale.
    Ora io, nel 2025, leggo le vicende del Terzo Reich e so con certezza come sono andate le cose. Il fatto che io oggi, post hoc, sappia le scelte che ha fatto Hitler cent’anni fa non vuol dire che lui, lì e allora, non fosse libero di compierle.
    Mettiamo che io abbia una macchina del tempo e torni indietro di 100 anni, al 1925: saprei con certezza quello che di lì a poco Hitler, in maniera totalmente libera, avrebbe combinato. Ma questa consapevolezza ante hoc non toglie nulla alla libertà di scelta di Adolf. Dal fatto che io so già le malvagità che egli compirà, non discende automaticamente che lui non è libero di farle o che il suo destino è già scritto.
    L’unica cosa che ne discende logicamente, è che io sono lì e so come andrà a finire la storia. Nessun limite al libero arbitrio
    Il bigotto potrebbe utilizzare questa argomentazione e non saprei come dargli torto. Anche se, così facendo, si darebbe la zappa sui piedi: se io sono lì e allora; se conosco come andrà a finire; se sono onnipotente e non lo impedisco, allora sono complice e moralmente esecrabile.
    Scusa la lunghezza, mi piacerebbe avere un tuo commento. Grazie di tutto Choam

    • È quello che dicono anche gli apologeti: tu sei libero perché Dio si limita a conoscere il futuro, ma tu no. Siccome tu non sai quali scelte farai, allora tu sei libero.

      Facciamo un esperimento mentale. Supponiamo che tu e io stasera andiamo in pizzeria. Tu quale pizza sceglierai? Non lo sai nemmeno tu. Certo sai che la tua preferita è la quattro stagioni, però non puoi escludere che all’ultimo momento, preso dalla improvvisa voglia di cambiare, ordinerai una capricciosa. Però Dio lo sa. E me lo ha rivelato con un foglio che mi è arrivato direttamente da lui, un foglio sul quale è scritto quale pizza tu sceglierai. Io apro il foglio, lo leggo. A quel punto so anch’io quale pizza tu sceglierai. Adesso siamo in pizzeria, il foglio è qui sul tavolo con me. Domanda: davanti al menu, tu ti senti davvero libero di scegliere la pizza che vuoi? Tu sei libero di scegliere se hai delle vere, reali alternative possibili. Se però su quel foglio è indicata la tua scelta, tu di alternative non hai: alla fine sceglierai quella pizza e non un’altra. Chiamala come vuoi, ma questa non è libertà. Tu non hai davvero alcun modo di scegliere una pizza differente.

    • Choam ha risposto nel suo articolo a questa obiezione, quando afferma che Dio non è solo uno spettatore privilegiato, ma il creatore stesso della realtà in tutte le sue componenti e interconnessioni. Per questo, oltre all’ impossibilità di una vera libertà umana, possiamo dedurre che è Dio l’ autore del male in quanto anche questo è determinato direttamente dalla sua creazione.

  2. Chi si occupa di teodicea, sia per difendere il Dio abramitico sia per criticarlo, parte sempre da un presupposto implicito: che si possa parlare di Dio come si parla di qualunque altro oggetto concettuale. Che sia lecito descriverlo, interrogarlo, giudicarlo, persino accusarlo. Questo vale tanto per il credente che cerca di giustificare Dio di fronte alla sofferenza del mondo, quanto per l’ateo che cerca di dimostrarne l’inesistenza sulla base della stessa sofferenza.

    Eppure entrambi sembrano dimenticare un aspetto fondamentale: l’imperscrutabilità di Dio. Non un orpello teologico, ma una caratteristica interna, strutturale, essenziale al Dio delle tre grandi religioni monoteiste. L’idea che Dio sia buono, onnipotente, onnisciente, eterno, aspaziale, atemporale e – appunto – imperscrutabile, fa parte del “pacchetto completo” di attributi tradizionalmente assegnati a questo Dio.

    Ed è proprio qui che casca l’intero dibattito sulla teodicea.

    Chi prova a “spiegare” perché Dio permette il male parte già sconfitto: sta cercando di dare un senso umano all’agire di un’entità che per definizione sfugge a ogni giudizio umano. Non solo: chi formula la domanda “perché i bambini soffrono se Dio è buono e onnipotente?” è in contraddizione logica. Sta pretendendo una risposta razionale da un’entità che è definita, nelle stesse Scritture, inconoscibile nei suoi fini e nei suoi pensieri.

    La rivelazione non risolve questa contraddizione. Anzi, la evidenzia. Perché anche dopo millenni di testi sacri e riflessioni teologiche, il “mistero della fede” resta tale. La sua permanenza è la prova del fallimento epistemico di ogni tentativo di penetrare davvero il senso dell’agire divino.

    Il punto è chiaro: se Dio esiste davvero così com’è descritto, ogni spiegazione umana del suo operato è destinata a fallire. Ma allora, perché continuiamo a fare domande come se Dio fosse una persona soggetta a un codice morale? E perché gli apologeti si affannano a costruire architetture logiche per spiegare l’inspiegabile, come se il Mistero fosse solo un problema temporaneo di comprensione?

    Se Dio è imperscrutabile, la domanda è già un errore. Chiedersi perché Dio permette la sofferenza di un bambino è come chiedersi quanti chilometri misura un’emozione, o se il colore rosso sia più rumoroso del verde. È una domanda che pretende coerenza razionale da ciò che per definizione sfugge alla ragione umana.

    Peggio ancora: chi cerca di rispondere a queste domande si arroga un potere illusorio, quello di “conoscere l’imperscrutabile”. È un paradosso che rasenta l’arroganza intellettuale: pretendere di rendere chiaro ciò che, per definizione, non lo è e non può esserlo.

    A ciò si aggiunga che, secondo le stesse Scritture, Dio non ha alcun dovere verso di noi. Nessun vincolo morale lo obbliga. Potrebbe non intervenire, potrebbe aver deciso di ritirarsi, potrebbe aver abbandonato l’universo alla sua sorte, potrebbe perfino aver cessato di “esistere” in senso operativo. E anche queste sono solo ipotesi, del tutto equivalenti nel campo dell’imperscrutabile.

    Io non contesto l’esistenza di Dio. Contesto la logica del dibattito.
    Se si prende sul serio il concetto di Dio come realmente viene definito dalle religioni abramitiche, allora il dibattito sulla teodicea è un castello costruito sulla sabbia.

    La domanda finale, quella che resta inascoltata da credenti e atei militanti è questa:

    Che senso ha dibattere dell’imperscrutabile? E perché si finge che questa parola non esista, se si prendono invece per buone la bontà, l’onnipotenza, l’onniscienza e tutte le altre caratteristiche del Dio abramitico?

    • Sono d’accordo con te, però dibattere continua ad avere senso perché, lungi dall’ammettere subito l’imperscrutabilità di Dio, i teologi e gli apologeti continuano a dire cose su Dio: è uno e trino, si è fatto uomo, è morto e risorto, tornerà alla fine dei tempi, è onnisciente, onnipotente e buono. Insomma dicono tante cose, come se sapessero tante cose. Le dicono perché – a quanto pare – stanno scritte nelle Scritture. Buffo, no? Un Dio imperscrutabile sul quale si sono scritti libri da millenni. Se le Scritture fossero coerenti con l’imperscrutabilità di Dio, dovrebbero contenere solo una frase: “Di Dio nessuno sa niente”. E invece.
      Poi però, quando ai teologi e agli apologeti mostri tutte le contraddizioni e le assurdità del loro Dio, loro ti rispondono proprio così, con una piroetta: Dio è imperscrutabile. E grazie al cazzo.

      Comunque, finché loro parlano di Dio, io continuo a demolirglielo. Mi diverte assai.

      • Ciao Choam come sempre è un piacere.

        Allora, tutto giusto ma…

        c’è un grande ma.

        Gli apologeti possono dire e scrivere tutto quello che vogliono, Bibbie, Salmi, Salmoni, Orate, Vangeli, Corani, Bolle, Contro Bolle, Editti…nulla di tutto ciò cambia la imperscrutabilità di dio. Nulla. Perchè come ho dimostrato anche qui (non servo io però è bene ricordarlo) può eliminare quella caratteristica che inficia tutto il resto dato che dio è onnisciente, onnipotente, onnipresente, eterno, buono (a volte cattivo) e : imperscrutabile.

        Qui però devo spezzare una lancia a loro favore, anzi, a sfavore degli atei per meglio dire.

        L’imperscrutabilità non è una piroetta è parte integrante del dio che si critica nel dibatitto, quindi la domanda della teodicea a mio avviso (poi liberi tutti) dovrebbe essere posta così : dato che dio è onnisciente, onnipotente, buono è imperscrutabile perchè soffrono i bambini? Ma perchè altri bambini sono invece felici e contenti e avranno una lunga vita comoda e agiata e moriranno tranquillamente nel proprio letto senza neanche soffrire da vecchi?

        O meglio la domanda più corretta sarebbe: esiste una teodicea dell’imperscrutabile dato che dio è anche questo?

        Chi risponde di sì ha inevitabilmente due opzioni : o ammette che sta inventando di sana pianta l’argomentazione oppure ci spiega come ha perscrutato l’imperscrutabile che appunto è inconoscibile da quando la Bibbia è stata scritta e anche dopo con tutti gli epigoni e/o spin off.

        Personalmente quello che non capisco, quando fate i dibattiti con i credenti/apologeti, è perchè non battete su questo punto fondamentale, piuttosto che ingarburgliarsi su filosofie, Plotino, Aristotele, Logiche, contro-logiche eccetera eccetera.

        Se la remore è la Rivelazione, si contesta facilmente con il Mistero della Fede che esiste ancora ad oggi dall’alba dei tempi e non si risolve con la venuta di Gesù, perchè appunto ancora oggi si utilizza e fa parte di dio.

        Ad maiora ed un caro saluto!

        Dario

    • Esatto…

      …oppure…non è un punto di arrivo ma un punto di partenza:
      puó l’imperscrutabile portare ad una qualsiasi teodicea?

      Può un apologeta dire che un’entità imperscrutabile è giusta o qualasiasi altra cosa?

      Secondo me no a meno che non mi spieghi come ha conosciuto l’inconoscibile però poi deve smettere di dire che è inconoscibile e spiegare tutti gli avvenimenti dell’eternità dal bosone di Higgs a la cacca che pesti per strada, punto per punto. Perchè per come, quando, chi, dove. Se però utilizza anche solo una volta “il mistero della fede” a cui è costretto perchè lui stesso parte dal dio imperscrutabile

      Hai capito il giochino?

      Nel mio articolo “breve storia di Dio” ho spiegato perchè hanno ficcato il buon dio abramitico alla fin della fiera lassù (anzi, dove? non si sa dove cazzo sia) perchè se fosse stato il dio che cammina fra gli accmapamenti o Zeus che si ingroppa le vergini sulla Terra l’imperscrutabile diventerebbe molto perscrutabile. Eppure hanno avuto l’intuizione di renderlo astratto ma non hanno calcolato che si sono inculati da soli perchè non è che una cosa è astratta solo quando Choam chiede perchè i bambini crepano male. Lo è sempre. Quindi: perchè la domenica vai in chiesa? Perchè bella Prof si mette il colletto bianco e fa voto di celibato? Perchè gli ebrei osservanti non mangiano mulluschi e maiale?
      Perchè il musulmano deve pregare 5 volte al giorno?

      Tutte queste cose sarebbero derivate dell’imperscrutabile, e, dato che l’imperscrutabile in ogni lingua del mondo ha un solo significato chiaro, nessuno può fare qualcosa che venga attribuito ad esso. Non si scappa, si sono intrappolati da soli.

  3. Articolo molto interessante. Che gli apologeti nuotino nelle contraddizioni è un fatto che dipende dall’assurditá dei loro assunti. Che non possano dire la verità è un altro fatto che dipende dal non contraddire la Chiesa Cattolica. Ma la domanda che mi pongo è quale sia il senso di un Dio assolutamente indifferente alla sua ipotetica creazione. È necessario? No. Se, come dice Spinoza, Dio ha stabilito delle leggi, allora il processo si realizza attraverso queste leggi. La biochimica ci mostra che una certa sostanza fa impazzire le cellule e l’organismo muore. Non si può fare nulla, è una legge di natura che nemmeno Dio può infrangere perchè contraddirebbe se stesso ovvero il suo assunto creativo. Quindi non ha senso chiedersi se le cose potrebbero essere differenti con l’intervento divino. È come considerare Dio uno spettatore estraneo all’essere, un osservatore esterno di fronte al palcoscenico della creazione. Ma così facendo lo poniamo su due piani distinti separando l’essere da se stesso. Quindi Bene e Male esistono solo come valutazioni soggettive. E se il Male è inevitabile nessun essere senziente ne è privo. Lo scoglio semmai è se il senso etico e morale che la nostra coscienza riconosce è insita nel processo naturale che governa l’essere. A questo punto che Dio ci sia o non ci sia è indifferente.

  4. Letto tutto, ormai ti seguo da tempo ( FB, Twitch e You tube ) e sicuramente riesci ad esprimere appieno il mio pensiero. Sicuramente con molte più parole, sono molto più sintetica a mandare affa certi ragionamenti circolari bigottiani. Ti ringrazio per la citazione da ” I fratelli Karamazov” bellissima! Stasera sarà il mio pensiero di congedo dal social.
    Grazie Choam

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